Se vuoi aiutarmi, giochiamo insieme

“Batti le mani” chiese la mamma al bambino, mentre io chiedevo se imitava o faceva gesti come “ciao” o “non c’è”. Il bambino continuava a osservare e scrutare per capire quali erano le mie intenzioni e non aveva voglia di fare niente.
Se un bambino è in grado di fare una cosa, se sta bene con voi, se c’è un clima sereno, state tranquilli che prima o poi ve lo mostrerà. Per questo motivo se invece un bambino non riesce, non serve insistere, né servono premi, punizioni, esortazioni: “ma come è possibile, dovresti già saperlo fare!”. Semplicemente non ci riesce, non c’è bisogno di insistere. E allora fatela insieme o fatela voi per lui, fin da subito. Fate in modo che già dall’inizio vede come si fa nel modo corretto, ma fatelo insieme a lui, accanto a lui. E se potete divertitevi, mentre giocate e mostrate. Perché mentre giocate e fate per lui, lui vi osserva, lui simula quello che ha visto fare a voi, come lo avete fatto voi, corretto fin dall’inizio e lo può “fissare” nella sua testa se è coinvolto, se è contento. State tranquilli, che il bambino vi anticiperà nel momento in cui ha capito cosa fare e come farlo e lo vorrà fare anche lui e vi vorrà mostrare che è bravo. Non esistono cose facili o difficili, esistono per tutti cose in cui riesco e cose che ancora non so fare. E allora non serve sapere che è facile o è difficile, o che solo se mi impegno posso riuscire. Serve che ti siedi accanto al bambino e giochi con lui, senza valutare e senza giudicare. 

Il "profilo" del bambino

Avete ospiti a cena, ma avete poco tempo e siete particolarmente stanche. Entra in gioco la vostra personalità e il vostro “profilo neuropsicologico”. Le vostre “funzioni esecutive” vi permettono di pianificare i passi da compiere. Per prima cosa ripassate a mente la ricetta dei piatti che volete preparare. Qui entra in gioco la vostra memoria a lungo termine,  dovete “pescare” da qualche parte nella vostra testa quella ricetta che avete fatto tante volte. Ma la vostra “memoria di lavoro”, vi permette di ripassarla in mente e al tempo stesso di pensare a quali ingredienti avete già a casa. Nel frattempo state guidando la macchina grazie al fatto che avete “automatizzato” tutta una serie di “prassie” (“movimenti in sequenza finalizzati ad uno scopo”) per la guida. E monitorate il traffico, grazie alle vostre abilità percettivo visive in cui chiaramente tutto il corpo è coinvolto con gli occhi e le orecchie. L’attenzione insieme a tutte le funzioni esecutive che monitorano il campo d’azione e pianificano, è sempre in funzione,  e vi consente in ogni istante di fare la cosa più importante. Se ad esempio squilla il telefono, riesco a “inibire l’impulso” di rispondere perché immagino le possibile conseguenze, soprattutto se non posso lasciare le mani dal volante. Intervengono in un breve lasso di tempo le nostre funzioni neuropsicologiche: funzioni esecutive, memoria, attenzione, linguaggio interiore, percezione, abilità prassiche. E agisce anche il vostro controllo delle emozioni, per cui decidete di non arrabbiarvi, perché sapete che la tensione e lo stress inficiano le vostre prestazioni e la torta non viene buona come quando siete rilassate.
Tutte queste funzioni sono coinvolte insieme nell’esempio che ho fatto, e quando una di queste non funziona bene, ecco che emergono delle difficoltà che possono trascinare anche le altre, soprattutto se siamo impegnati in un compito complesso, oppure devo iperstimolare una funzione per compensare quella che non funziona bene. Ad esempio il bambino dislessico che impiega tanta attenzione per svolgere una funzione, la lettura, che non ha “automatizzato”. Il profilo neuropsicologico del bambino serve a individuare quali sono le difficoltà maggiori del bambino e se la terapia sta contribuendo a migliorarle. E la situazione viene monitorata e verificata periodicamente per apportare eventuali modifiche. Questo profilo si ottiene tramite la somministrazione di test che valutano appunto l’intelligenza e tutte le funzioni neuropsicologiche. Ci sono compiti, più complessi, come nell’esempio riportato, in cui le funzioni neuropsicologiche intervengono tutte insieme, ma ci sono test e compiti specifici che servono appunto a misurare e a intervenire solo su una determinata funzione.
Ovviamente, prima di ogni profilo, non lo dimentichiamo mai, c’è sempre il bambino, con la sua personalità, il suo temperamento, la sua esuberanza e le sue esigenze.                                   

Il farmaco per calmare il bambino.

Vengo chiamato dalle insegnanti perché il bambino, che frequenta la scuola elementare, non ascolta, non rispetta le regole, continuamente infastidisce i suoi compagni e grida.
A volte capita anche che alla minima frustrazione si butti a terra, in preda ad una forte agitazione. Il quadro che mi viene descritto è decisamente negativo. Cerco di contestualizzare i comportamenti, di individuare delle situazioni scatenanti, di capire un po' di più. Ma le insegnanti sono stanche, e chiamano di continuo la mamma perché si riporti a casa il bambino. Osservo da vicino uno di questi episodi, il bambino è lasciato solo con la mamma all'entrata della scuola, non vuole entrare: grida e tira calci e pugni. Ma nessuno gli si fa incontro. La mamma è confusa, non sa cosa fare, si guarda intorno, è stanca di essere chiamata quasi ogni mattina.
La richiesta che mi viene fatta è una sola: il farmaco per farlo calmare. Si effettivamente il farmaco può contribuire a ridurre la sua reattività e la sua agitazione, a regolare il suo comportamento. E alcuni bambini, anche se non sono chiari i motivi, hanno una chiara incapacità a regolare i propri impulsi, a controllare il comportamento e a inibire certe condotte e sembrano non rendersi conto delle conseguenze di certi comportamenti. E per questi bambini un intervento comportamentale deve essere attuato, ma può non bastare. Si prende in considerazione il farmaco. Si cerca di individuare la dose minima efficace e di monitorare l'eventuale comparsa di effetti collaterali. E si verificano insieme alla famiglia, dopo un periodo, se i benefici sono tali da giustificare la continuazione della terapia. Il farmaco, però, non è sufficiente da solo, se non viene accoppiata appunto una terapia comportamentale. Ma ritornando al nostro bambino, c'è una cosa che va fatta prima del farmaco e prima di qualunque terapia comportamentale: conoscere il bambino e accettarlo a prescindere. E lui lo sente quando si sente accettato, anche se è in preda ad un incantesimo, siamo lì con lui e aspettiamo che si calmi, lo rassicuriamo, gli parliamo dolcemente. E stiamo lì, anche se non condividiamo il suo comportamento, anche se non lo accontentiamo nelle sue richieste.

Perché ancora non hanno inventato il farmaco che possa fare sentire il bambino accolto. 

Prepariamo tante belle torte

Viviamo ogni giorno percorrendo gli stessi sentieri conosciuti, dentro le nostre abitudini. Da quando ci alziamo la mattina ripetiamo gli stessi comportamenti. Lo facciamo perché sappiamo cosa ci aspetta e ciò ci rende più sicuri e tranquilli.  Le situazioni nuove non le cerchiamo o possiamo trovare delle scuse per evitarle, per non affrontarle. A volte invece, di fronte alle difficoltà, ci impegniamo con determinazione, ma possiamo non arrivare dritto alla meta perché non abbiamo programmato bene la strada o ancora dobbiamo semplicemente aspettare. Quando i nostri bambini si trovano ad affrontare delle difficoltà di apprendimento a scuola, iniziamo a studiare anche noi per cercare di capire come aiutarli. Ecco la situazione nuova a scuola: il bambino viene accostato a delle sigle come DSA o BES. Gli insegnanti iniziano a prendere consapevolezza che effettivamente il bambino ha delle difficoltà, ma continuano a fare quello che hanno sempre fatto, perché hanno 30 bambini e non “possono fare un programma diverso per ciascuno”. Si trovano ad affrontare una situazione nuova: potrebbero entusiasmarsi nel prendere in mano da protagonisti la didattica, modificandola con creatività e adattandola per fare emergere il meglio, potrebbero accettare la situazione senza attribuire responsabilità, o potrebbero pretendere di continuare a fare quello che hanno sempre fatto.  I genitori sperimentano in prima persona le difficoltà del bambino, che nonostante studi non ottiene risultati. Iniziano a sviluppare sensibilità e competenze. Toccano con mano. Capiscono ad esempio che se leggono al bambino la storia, lui la comprende e la sa anche ripetere. E allora iniziamo a spiegare le difficoltà alle insegnanti, cerchiamo con l’aiuto di specialisti di sensibilizzare, presentiamo certificati, ma non otteniamo il cambiamento che vorremmo. Qui sta il punto: possiamo essere artefici del cambiamento nel momento in cui parte da noi, concretamente, e facciamo toccare con mano i benefici. Prima di tutto nel bambino, concordando con lui ogni strategia che lo renda il più autonomo possibile. Questo è il cambiamento: non aspettiamo che siano gli altri ad adottare il nuovo approccio, le nuove strategie. Iniziamo noi, operatori e genitori. Ci deve pur essere qualcuno che inizia. Non possiamo aspettare. Semplicemente perché percorrendo la strada conosciuta stiamo andando a sbattere: il bambino sta perdendo la voglia di studiare
, non apprende e noi siamo stanchi di lottare. Io personalmente preferisco mangiarmi la torta già pronta e che sia qualcun altro a prepararla, altrimenti ci rinuncio. Ecco quello che voglio dire: portiamo tante belle torte pronte da assaggiare, facciamo sentire che sono buone, perché la ricetta da sola non basta per invogliare gli altri a prepararle.
   

Qual è la spiegazione del suo disturbo.

Quando il bambino manifesta un disturbo dello sviluppo, che riguardi il linguaggio, l'attenzione, o la relazione, la prima domanda che ci si pone è “perché presenta tale disturbo?, Quali sono le cause?, Cosa devo fare per individuarle?”. E allora inizia la ricerca, su internet, parlando con medici e operatori vari, confrontandosi con chi ha già affrontato situazioni simili. Ma non sempre si ottengono risposte soddisfacenti o risposte univoche. Ci sono casi in cui è chiara nella storia del bambino la correlazione del disturbo con una causa, con una malattia: per esempio una particolare sofferenza nel periodo che precede il parto o subito dopo o una malattia che abbia interessato il sistema nervoso. Ma in tanti altri casi la causa non si vede, “non c'è”: penso al ritardo del linguaggio, al disturbo dello spettro autistico, alla disprassia, alla disabilità intellettiva, ai disturbi dell'apprendimento e dell'attenzione. Gli esami effettuati non evidenziano niente di significativo. Facciamo una digressione sull'argomento con alcuni spunti riguardo al nostro modo di funzionare su questo mondo.
Ognuno di noi si relaziona e agisce nel proprio ambiente sulla base delle caratteristiche del proprio sistema “mente-corpo” e del proprio contesto di vita. Mente e corpo non sono separate, l'una non può esistere senza l'altro. Quando tocco un oggetto ho un'esperienza tattile sulla base del fatto che ho utilizzato attraverso il corpo, appunto, un approccio tattile. Le informazioni che ricevo dall'ambiente hanno caratteristiche diverse in base al tipo di modalità di approccio che utilizzo: visiva, tattile, olfattica, ecc. Cioè è l'azione che svolgo o immagino con il corpo che mi fa avere una determinata sensazione e quest'azione è coordinata dal cervello.
Altro aspetto importante sono i significati condivisi: un pezzo di carta (banconota) acquista valore solo perché è condiviso e non perché il valore sia intrinseco al pezzo di carta. E poi c'è la nostra storia che ha plasmato il nostro cervello. Quando interagiamo il cervello, tutto insieme, assume determinate configurazioni. Ma quando la “realtà è ben lontana” dalla propria, come un'attività proposta o un gioco, qualunque persona non riesce ad adattarvisi e a rispondervi perché richiederebbe un cambiamento grande rispetto alla configurazione del proprio cervello. Possiamo rispondere alla realtà solo quando questa richiede piccole variazioni di configurazione del nostro cervello. Sono aspetti tecnici, lo capisco. Ma con questo voglio dire che per ogni aspetto della nostra vita c'è una spiegazione, una causa, una determinata configurazione del nostro cervello, un particolare adattamento. E c'è una spiegazione anche se non la vedo, ed è riduttivo (per quanto scritto) trovare la spiegazione solo nel cervello o nel corpo, o nell'esperienza. E nel caso dei disturbi dello sviluppo? In un certo senso può valere lo stesso discorso: la causa c'è ma non la vedo. I geni (DNA) modellano lo sviluppo del sistema nervoso, e quando il bambino interagisce, il suo cervello (integrato con il corpo) assume determinate configurazioni, che poi si possono modificare con l'esperienza e la terapia, ecc. ecc. Dove è la causa? Qual è la spiegazione? E' possibile individuarla in una risonanza del cervello? O dentro una mappa cromosomica?. Posso riconoscere, intuire un pezzetto di storia o un pezzetto di una catena fatta di tanti anelli: il DNA, l'esperienza, il corpo, la propria storia, la propria famiglia, il proprio contesto di vita. Gli anelli interagiscono fra di loro e sono tutti importanti, ma non è possibile conoscerne il peso.

Cosa desideriamo per i nostri figli?

Ma in fondo cosa desiderano i nostri figli? E noi genitori cosa desideriamo per loro? Forse queste domande non ce le poniamo spesso o non ce le poniamo affatto, perché siamo presi da mille pensieri, dai problemi quotidiani, o forse perché pensiamo di saperlo.
I bambini ci chiedono, se potessero, di essere amati per come sono, di essere trattati con dolcezza, di poter essere loro i “padroni” della loro vita.
Noi sicuramente desideriamo che siano felici, capaci di gratitudine, in grado di rispettare le cose e le persone,  che siano sicuri di sé, indipendenti, con una buona autostima per cavarsela nella vita.
E vogliamo che siano anche bravi. Ma cosa significa essere bravi.

Essere bravi significa forse non piangere, non fare capricci e seguire tutti i nostri consigli e le nostre indicazioni.  A prescindere.

Ma il “bravo” bambino, che ad esempio smette di piangere e si addormenta, nel tempo può diventare un bambino che  si arrende e non tiene conto dei propri desideri e sentimenti, perché ciò che conta è altro.

Ci hanno insegnato a rispettare le regole, ad essere bravi, a fare determinate cose perché c’è un’autorità che lo dice, al costo di rinunciare o peggio finire per non sentire i nostri bisogni, sentimenti e desideri.

In realtà per cavarsela nella vita non contano le regole o le conoscenze, ma l’accettazione di se stessi, l’autostima, la fiducia nelle proprie capacità, le passioni. E perché queste virtù nei bambini si possano sviluppare quello che conta veramente è consentire che la loro natura possa emergere, che i loro sentimenti siano riconosciuti, che di mamma e papà si possano fidare e possano chiedere tutto ciò di cui hanno bisogno.

L’accettazione e l’empatia hanno il potere di grandi trasformazioni.
Ma per fare tutto ciò occorre una presa di responsabilità da parte nostra, occorre porsi le domande, fermarsi per riflettere. E godere e provare stupore semplicemente della loro presenza




Non c'è niente da "sbloccare"

Quando osserviamo i bambini, le loro conquiste, i loro progressi, le prime parole, i primi passi, siamo presi da stupore.  Siamo orgogliosi, siamo onorati di essere partecipi di queste meraviglie. Ma ogni conquista, grande e piccola, è inserita all’interno di un percorso, che inizia molto presto e cioè fin da quando il bambino si trova dentro la sua mamma. Ogni conquista non avviene a caso, ma presuppone un lungo “studio” da parte del bambino e tanto amore da parte dei suoi genitori. Pensiamo ad esempio alle prime parole. Il bambino inizia a familiarizzare con i suoni della sua lingua fin da quando è dentro la pancia della mamma. E da neonato inizia anche a distinguerli. E’ particolarmente affascinato davanti al volto della sua mamma che le canta e le sussurra una ninna nanna. Già dai primi mesi il neonato comincia a “dialogare” con tutto il suo corpo, con la mimica e con i vocalizzi. E ben presto comprende che con il pianto ottiene l’attenzione e le coccole, e vengono così soddisfatti i suoi bisogni primari. La sua mamma interpreta continuamente i suoi comportamenti, attribuendovi significati e intenzionalità: “hai fame?”, “si vuoi la tua mamma”. E poi ci sono i primi suoni: “ma-ma, ba-ba,”. E lì la mamma si precipita, con un grande sorriso: “siii, hai detto mamma” e iniziano il gioco e le coccole. Il cammino è veramente lungo e avviene in modo naturale, senza rendercene conto, ma presuppone un fluire continuo di relazioni ed emozioni. Perché solo dentro la relazione avvengono le conquiste, senza relazione il bimbo non cresce, non nasce. “Mi muovo dentro un ambiente che voglio conquistare e conoscere e dentro la relazione con chi si prende cura di me”.
E quando il bambino ha difficoltà, o un ritardo, ci dimentichiamo cosa c’è dietro una conquista, ci dimentichiamo quali abilità sono necessarie perché il bimbo pronunci le sue prime parole. E pensiamo che ci possa essere l’esercizio, il massaggio, la medicina che possa inserirsi dentro quel percorso, che possa liberare il bambino da chissà quale “blocco”. Ci dimentichiamo che il cervello e tutto il corpo sono plasmati dall’esperienza, ma solo da quelle esperienze ripetute in cui il bambino è protagonista che agisce nell'ambiente. Non esiste l’esercizio speciale che consenta al bambino di apprendere, di riuscire a parlare e a camminare, a leggere e a scrivere se lui non è protagonista. E protagonista lo è anche il neonato, che quando alza il capo e lo orienta verso la sua mamma, non lo fa certo perché i suoi muscoli sono cresciuti o perché l’abbiamo liberato da chissà quale blocco.
  

Come aiutare il bambino "iperattivo".

Tutti i bambini possono presentare più o meno frequentemente dei comportamenti non appropriati, o ancora quelli che definiamo comunemente capricci. Nella maggior parte dei casi riusciamo a individuare  i motivi e basta un po’ di comprensione, accettazione e qualche regola e il bambino gradualmente impara a utilizzare altri comportamenti, più appropriati, per esprimere bisogni e desideri. Ma ci sono alcuni bambini, che più di altri, fanno decisamente fatica a controllare il proprio comportamento: sono irrequieti, passano facilmente da una cosa all'altra, possono essere impulsivi, non ascoltano, non completano le attività,  si alzano in continuazione. Questi bambini, al di la delle definizioni che possiamo utilizzare, hanno una vera e propria difficoltà ad autoregolare il comportamento, e ciò non dipende dal tipo di educazione o come direbbe qualcuno dall’assenza di regole.

E per loro che vale ancora di più la regola (che vale per tutti), che se vogliamo ottenere dei cambiamenti positivi dobbiamo premiare i comportamenti adeguati: ad esempio se durante la prima ora a scuola il bambino sta seduto solo i primi dieci minuti ma poi si alza in continuazione, solo se lo premiamo per il tempo che è stato seduto, il giorno dopo andrà meglio. La punizione, la mortificazione, l’umiliazione nel medio e nel lungo termine non ci fanno ottenere i cambiamenti sperati. Occorre definire i comportamenti che vogliamo ottenere, perché non basta dire “se fai il bravo poi ottieni….”. “Se fai il bravo” è troppo generico” e non ci permette di apprezzare i piccoli cambiamenti positivi del comportamento, infatti nell’arco della mattinata il nostro bambino sarà stato seduto a seguire la lezione, ma si sarà alzato e avrà disturbato tante volte, per cui alla fine della giornata non avrà ottenuto nessuna gratificazione, se non abbiamo definito bene il nostro obiettivo. Ricordiamo che è l’esperienza del successo che ci motiva a cambiare e a continuare ad adottare un dato comportamento. E allora quello che si può fare con i bambini che hanno difficoltà ad autoregolarsi è identificare un comportamento che vogliamo ottenere, un comportamento che sia ben calibrato: se oggi il nostro bambino sta seduto solo 15 minuti, il nostro obiettivo sarà arrivare a 20 minuti e gradualmente sempre più, e lo premiamo ogni volta con una bella “faccina sorridente” che mettiamo bene a vista. E le “faccine” saranno sempre di più e alla fine della fila di faccine c’è il disegno del premio che riceverà. Le faccine saranno facilmente visibili al bambino.
Ripeto, se vogliamo ottenere dei cambiamenti il bambino deve sperimentare il successo. Il successo è dato dal premio per essere stato seduto 20 minuti e lo aiutiamo per raggiungere il suo obiettivo e lo premiamo anche se poi si è alzato per il resto dell’ora. Perché il nostro obiettivo non era “fai il bravo”, ma “stare seduti per 20 minuti a seguire la lezione”, e lui si è dovuto impegnare per raggiungere quel tempo. Lo stesso principio e la stessa tecnica vale per tutti gli altri comportamenti che vogliamo ottenere.

Come capire se quello che sto facendo per il bambino è utile.

Quando abbiamo realizzato che il nostro bambino aveva bisogno di fare la riabilitazione, ci siamo rimboccate le maniche e abbiamo iniziato con tanto impegno e speranza questo percorso. Abbiamo incontrato tante persone, alcune con visioni diverse rispetto all'intervento e alla valutazione. Abbiamo letto tanto, soprattutto su internet: tante proposte riabilitative diverse, alcune delle quali che promettono la guarigione. Ma ora c'è da prendere una decisione: "chi ascolto?", "chi avrà ragione?".
Sulla base della mia esperienza e formazione individuo alcuni criteri che vi possono guidare in queste scelte.
Ricordate che ciò che va bene per un bambino e la sua famiglia non è detto che vada bene anche per un altro. E questo lo ricaviamo dall'esperienza.

Se sottoponete il bambino a tanti trattamenti, senza un unica regia, e con modalità diverse, non è detto che sia proficuo.

Mantenete un atteggiamento di riflessione e di attesa di fronte a proposte che lasciano intravedere soluzioni semplici e facili al problema.

Seguite anche il vostro istinto per capire cosa è veramente utile e cosa non lo è, lasciando anche stare le proposte più seguite e famose.

Valutate anche seguendo il criterio del "buon senso", perché alcune tecniche di riabilitazione non lo soddisfano.

Considerate ancora che per giudicare se una cosa è buona e di buon senso, questa deve poter essere tranquillamente pensata e proposta anche per bambini con uno sviluppo tipico e regolare.

E poi, deve essere sempre chiara la relazione tra la difficoltà del bambino e il tipo di attività che gli viene richiesta da svolgere: ciò significa che se la difficoltà riguarda il linguaggio, gli esercizi verteranno sul linguaggio; se le difficoltà riguardano l'apprendimento il lavoro sarà svolto su lettura, scrittura, abilità percettive, di linguaggio ecc., strettamente collegate appunto con l'apprendimento, se la difficoltà è di tipo motorio verranno svolti esercizi cognitivi che prevedano un impegno motorio per risolverli, e così via per tutte le funzioni.

Altro criterio è la chiarezza degli obiettivi, che devono essere facilmente verificabili e in qualche modo misurabili.

E infine c'è il bambino che sta bene, è motivato e ha il piacere di impegnarsi, perché altrimenti non c'è cambiamento, non c'è apprendimento.

Lettera di un genitore.

Quando mi comunichi la diagnosi, e mi spieghi cosa ha mio figlio, perché non parla, perché ancora non cammina, non lo fare solo in un incontro. Accompagnami in questo percorso di accettazione, di adattamento, io non ero pronto, mi ero immaginato un altro bambino. Dammi il tempo di cui ho bisogno. Non mi dare tutte le risposte, rispondi solo alle domande che ti pongo, per le altre ancora non sono pronto. Io ho bisogno di sperare. Non mi giudicare, io non sono un tecnico come chi ha studiato tanto per capire certe cose, non sono abituato a certi termini e non ne ho esperienza. E poi io dimentico e cancello alcune informazioni, aiutami a capire soprattutto nel momento in cui mio figlio non cammina o non parla come gli altri bambini. E non mi giudicare se voglio sentire altri pareri, perché ancora il dolore è vivo. E credimi quando ti racconto le cose belle che fa mio figlio, anche se a te non le ha fatte. Lo so dovrei capire in fretta per il bene del mio bambino, perché rischio di sbagliare o di chiedergli delle cose troppo difficili, ma ho bisogno ancora di tempo. E poi io sto iniziando a capire, spiegatelo alle insegnanti o ai miei parenti, che mi pressano in continuazione e hanno capito ancora meno di me. Accettami come sono e comprendimi. Lo so che sono diventato troppo protettivo nei confronti del mio bambino, ma lo vedo ancora debole e non tutti ancora hanno capito cosa ha, e lui non si fa capire bene. A volte ho paura di sbagliare ed è per questo che ancora non me ne occupo come vorresti. E allora ti chiedo di aiutarmi a trovare dentro di me le risorse e la forza necessarie, per tutto.

Onoro il bambino.

Viviamo continuamente in funzione di qualcosa da raggiungere e da ottenere. Giudichiamo qualcosa o qualcuno facendo confronti tra come vediamo e come secondo noi dovrebbe essere. Spesso lo facciamo in modo automatico,  senza rendercene conto. Questo approccio alla vita finisce per condizionare la nostra esperienza: sono ad esempio i “se” e i “ma” che utilizziamo spesso e che danno un colore diverso alle cose che ci accadono. E finiamo per reagire non a ciò che ci accade in se, ma ai nostri pensieri, ai nostri giudizi, che sono stati creati da noi, nella nostra mente. Ciò è dimostrato dal fatto che di fronte alla stessa situazione ognuno di noi può avere reazioni diverse e il nostro stato d’animo è condizionato dalla reazione, dal giudizio e dalla interpretazione che formuliamo su quella situazione. Formuliamo giudizi e interpretiamo di continuo anche con i nostri bambini: “ancora non ha imparato a….”, “ogni volta che mangia……., invece sua sorella….”, “ancora non parla…..tuo figlio invece..”, “non ha imparato a mangiare da solo…”. Questo atteggiamento emerge soprattutto nelle difficoltà. Non accettiamo un dato comportamento, una difficoltà perché secondo noi dovrebbe andare diversamente: “dovrebbe essere più sicuro”, “a questa età dovrebbe pronunciare già tante più parole..”, “non riesce a staccarsi  da me…”. Potremmo fare mille esempi, in cui esprimiamo una visione della realtà che cela un confronto tra ciò che è e come noi pensiamo e speriamo dovrebbe essere.  Ciò finisce per condizionare la visione che abbiamo del bambino e quindi anche il nostro atteggiamento: ci rapportiamo, in alcuni momenti, in funzione del raggiungimento di un comportamento e del superamento di una difficoltà.  E giudichiamo il bambino in base al comportamento che vogliamo cambiare (“ora si che sei bravo”) e a volte utilizziamo anche le etichette. Le etichette alterano la percezione della realtà e la restringono: “è pigro…”, “è insicuro..”, “è capriccioso”, ecc. Magari lo è veramente in alcuni momenti e va bene così. Ma non può essere solo questo naturalmente,  non tutto è riconducibile all’etichetta utilizzata. Il nostro comportamento non è giusto o sbagliato, non c’è il genitore e l’educatore perfetto. Ma prendere consapevolezza di questi meccanismi ci permette di godere ancora di più dei momenti passati insieme, passati insieme per il piacere e la genuinità dell’incontro, della relazione. Onoro il bambino per come è e basta, senza alcuna pretesa, senza alcun giudizio.




Il bambino deve essere gratificato, sempre

Ho conosciuto tanti bambini con la dislessia. La famiglia si rivolge a me per la diagnosi. Tutti hanno un percorso scolastico  simile: la difficoltà ad apprendere a leggere e a scrivere e la lentezza e gli errori nella lettura e nella scrittura. Ma nel momento in cui spiego quali sono le difficoltà del bambino, descrivendo un quadro che è diverso da quello che si erano fatti, ecco che la mamma si ferma e riflette e ha uno sguardo di comprensione verso il suo bambino. E’ come se finalmente qualcuno riconosca le cose per come realmente sono. Invece finora si doveva andare dietro i soliti schemi: è svogliato, non si esercita abbastanza, deve leggere di più, se non legge bene è perché sta poco attento. Ora c’è una sorta di rivincita. Finalmente!. Ma a questo punto che si fa. Il mio pregiudizio è che le cose non cambiano perché c’è una diagnosi, una certificazione. Perché il bambino è intelligente, non ci sarebbe bisogno di certificarlo. Può seguire gli stessi programmi, adattando con cura e creatività la didattica. E curandoci del bambino. E non è necessaria una certificazione per gratificare comunque un bambino che è lento nella lettura. Perché se vogliamo motivarlo gli dobbiamo dire che è bravo, perché è bravo realmente. Se vogliamo motivarlo allo studio deve essere gratificato sempre, anche quando sbaglia: “ti sei impegnato davvero, riguarda queste parole, hai letto meglio di ieri”. Se è visto “lento”, “incapace”, non ce la farà, si stancherà e perderà la voglia di studiare. Possiamo vedere il bambino al di là di come legge e scrive?: “E’ molto intelligente, se solo si impegnasse nella lettura…”. Non dimenticherò mai, invece, una frase dell’insegnante di scuola elementare di mio figlio, di fronte alle pagine scritte male: “ma questo è lui”. Come dire, va bene così. Qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo non si sprona il bambino. NO. Perché il genitore si sente sollevato e non sta a giudicare il suo bambino, e lo sa già come aiutarlo, lo fa già. 

La relazione sopra ogni cosa

Prendiamo lentamente consapevolezza del fatto che il nostro bambino ha bisogno di un aiuto in più, più specifico per progredire meglio nel suo sviluppo. Per questo  possiamo avvalerci di figure professionali, che valutano il bambino e le sue abilità. Individuate le eventuali difficoltà e le abilità del bambino, vengono stabilite essenzialmente due cose: gli obiettivi del nostro intervento e il come raggiungere questi obiettivi. Gli obiettivi non devono tenere conto dell’età del bambino, ma delle sue abilità e delle sue difficoltà. E le attività e gli obiettivi li collochiamo nell’ “area di sviluppo prossimale” del bambino, cioè sono vicini rispetto al livello delle sue abilità e si adattano alle sue caratteristiche. Ma c’è una cosa che conta ancora di più degli obiettivi e delle tecniche utilizzate, una cosa fondamentale perché il nostro intervento riesca, sto parlando della Relazione. La relazione presuppone la nostra capacità di entrare in sintonia con il bambino. In sintonia con i suoi bisogni, con il suo stato d’animo, con la sua stanchezza, con la sua motivazione, con la sua voglia di avere vicino la mamma, con le sue difficoltà. Entrare in sintonia significa rispettare i suoi tempi, perché ognuno di noi ha dei tempi e dei modi per stabilire e mantenere la relazione. E i bambini non li possiamo ingannare, perché loro lo sentono quando siamo sintonizzati, tutti i bambini lo sentono. E lo sentono non dalle parole che utilizziamo, ma dal nostro atteggiamento tranquillo, dal tono della voce, dalla postura, dalla gestualità, dalla nostra pazienza. E quando non siamo sintonizzati con il bambino, dobbiamo avere la forza di fermarci e fare un passo di lato.. e semplicemente riflettere. Perché nel momento in cui capiamo che siamo noi poco tolleranti, noi arrabbiati, noi impazienti, noi tesi e il bambino non c'entra niente, ecco in quel momento la relazione può tornare nuovamente a fluire.
   

Il bambino è sacro.

Ogni bambino è sacro, come sono sacri i suoi genitori.
La sacralità è l’essenza più intima di ciascuno di noi, che è sempre presente e non cambia, al di là di come ci chiamiamo, di come ci comportiamo, di come ci sentiamo, di cosa pensiamo e di cosa pensano gli altri di noi.
La nostra essenza più profonda, di cui non siamo consapevoli perché travolti da mille pensieri, rimane immutata anche se cambiano i nostri comportamenti, il nostro corpo e l’immagine che gli altri hanno di noi. Ci identifichiamo con un comportamento, con una storia personale, con un’immagine, con un’appartenenza a qualcosa o a qualcuno, ma tutto cambia e tutto passa, ma possiamo fare sempre e comunque l’esperienza che il nostro se più profondo è lì integro, immutato.

Rispettiamo questa sacralità del bambino, questa essenza profonda, la sua essenza più intima, la sua unicità, presente dietro il suo aspetto, i suoi comportamenti. Guardiamo il bambino che ho davanti al di là dei nostri giudizi su di lui. Lo amiamo e lo accettiamo per come è, e non perché si comporta come vogliamo noi.  Capiamo che reagiamo ad un nostro pensiero,  cioè a una interpretazione del comportamento osservato, che non coincide affatto con il bambino e con la sua sacralità. Capiamo quale bisogno nasconde il bambino, quale emozione, quale desiderio dietro a quel comportamento. Capiamo che se desidera qualcosa che non può avere non è sbagliato. Capiamo che per il bambino lottare per avere la sua mamma non è un comportamento sbagliato. Capiamo la sua sofferenza al di là delle apparenze. Guardiamo la sua unicità, facciamo esperienza della sua sacralità, della sua natura, al di là dei pianti, delle grida e dei comportamenti che riteniamo sbagliati. Perché il bambino cresce e cambia perché il cambiamento fa parte di lui. E diventa un adulto Maturo, non perché rispetta le regole che abbiamo imposto noi, ma perché è stato visto, riconosciuto, rispettato, accettato, amato, così come Lui è. Quando ci hanno capito e riconosciuto al di là di tutto, quando abbiamo onorato ed è stata onorata la nostra sacralità, cambiamo, cresciamo e diventiamo padroni della nostra vita.
   

Valutare il bambino con disturbo dello spettro autistico

Conosciamo e valutiamo i bambini con disturbo dello spettro autistico attraverso le osservazioni, i test e i questionari rivolti ai genitori. Descriviamo in questo modo le caratteristiche del bambino, le sue abilità emergenti e le sue difficoltà. Un'abilità si definisce emergente quando occorre un po' di aiuto da parte dell'operatore per portare a termine il compito del test. Un aiuto può essere dato dalla dimostrazione di come si fa, da un'istruzione verbale o dalla guida fisica. Questi profili indirizzano il nostro intervento.
Alcuni test tracciano un profilo delle abilità, senza che questo coincida necessariamente con il funzionamento intellettivo del bambino. Mi spiego meglio: quando il bambino è piccolo le sue abilità di imitazione, di coordinazione occhio mano, di percezione, di motricità, “misurate” con il test, possono corrispondere a quelle di un bambino più piccolo rispetto alla sua età.

Questo profilo più basso non sempre corrisponderà ad un funzionamento intellettivo basso quando il bambino sarà più grande e non sempre corrisponde al reale profilo di funzionamento del bambino.

Cosa può succedere. Prendo in esame alcune situazioni comuni: il bambino non collabora all'esame, perché è stanco, perché non è interessato, perché non ha compreso

Non esiste il disturbo dl comportamento.

I bambini con disturbo dello spettro autistico, almeno prima di iniziare un intervento riabilitativo, e soprattutto quelli che non hanno ancora sviluppato un linguaggio verbale, hanno difficoltà a comunicare i propri bisogni e i propri desideri. E per farlo possono mettere in atto alcuni comportamenti diversi, problematici: gridare, buttare le cose, farsi del male, ecc..
Se ci pensate questi comportamenti hanno tutti le stesse funzioni: comunicare e ottenere qualcosa o evitarne un’altra, ottenere attenzione. Il bambino non è intenzionalmente aggressivo, non vuole prevaricare, non vuole deliberatamente piangere e urlare per infastidirci e stancarci. Lui vuole qualcosa, ma non sa ancora bene cosa fare per farcelo capire. A volte lo capiamo, ma pretendiamo comunque che si abitui rapidamente alle nostre richieste e abitudini. Inoltre il bambino ha fatto esperienza che attraverso questi comportamenti riesce a ottenere quello che vuole e quindi continuerà ad attuarli. Qualcuno prova a resistere e per questo lui è costretto ad alzare il livello del suo comportamento problematico. La soluzione è, per così dire, semplice: attuare un sistema di comunicazione che faccia capire al bambino quello che è il potere della comunicazione

Dalla parte del bambino.

Descrivere la condizione delle famiglie che convivono con la malattia e la disabilità del figlio non è possibile, o almeno risulta molto difficile. Perché entriamo in una sfera privata, che investe la vita soggettiva di ciascuno. Perché descrivere i sentimenti e i vissuti che nascono nelle storie di ciascuno non è possibile, così come non è possibile descrivere ad esempio le sensazioni o gli stati d’animo. Le parole non possono spiegare un’esperienza soggettiva, personale. E per questo che descrivo delle tendenze, dei comportamenti. Ad esempio ci sono delle famiglie che “lottano” e che non delegano, che si informano, che inseguono ogni possibilità d’intervento. E spinti magari dalle pressioni degli altri o dai propri sensi di colpa (ma il genitore non ha nessuna colpa) seguono anche delle terapie alternative, non convenzionali. Queste terapie non sempre si integrano con le altre svolte dal bambino ed essendo non convenzionali, diciamo che non ne è stata dimostrata l’efficacia. Ma cosa spinge il genitore ad affidarsi e a fidarsi di persone che fanno tali proposte. Una spiegazione: il messaggio è chiaro e semplice, e lascia intravedere una speranza. In questo messaggio si lascia intendere una spiegazione semplice della disabilità e quindi anche la proposta di intervento è semplice: il bambino per parlare deve semplicemente “rompere il fiato” o per superare il suo blocco deve fare tante volte questo tipo di esercizi,  al posto di quelle spiegazioni “complesse” in cui si dice che il bambino per parlare deve  essere in grado di imitare, di comunicare, di relazionarsi, deve avere la motivazione, gli interessi, ecc. ecc. A questo messaggio semplice e chiaro a tutti, se ne aggiunge un altro: grazie a questo metodo i bambini hanno fatto tanti progressi, o sono addirittura guariti. E non serve necessariamente una spiegazione, il messaggio arriva forte ed è immediatamente convincente. La famiglia a questo punto non sente altro. Un ulteriore annotazione: la riabilitazione, rispetto ad altri campi della medicina, si presta maggiormente a discussioni. Non stiamo valutando una lastra

Gli effetti dei video game violenti.

E' chiaro ed evidente a tutti che la nostra personalità non è la semplice somma delle nostre esperienze, delle nostre relazioni e condizioni. Pertanto non si può dire che basta un video game per spiegare i comportamenti “violenti” dei bambini. Tuttavia è innegabile e alcuni studi lo riportano che la violenza osservata in televisione e nei giochi al computer induce nei bambini “comportamenti aggressivi”, almeno immediatamente dopo aver smesso di “giocare” e osservare certe scene. I bambini che guardano video violenti si comportano successivamente in modo aggressivo verso le cose e verso le persone. Ciò non basta, ripeto, a dire che il bambino diventerà un “violento”, per la premessa che ho fatto. Perché il bambino vive in un contesto dove il dialogo prevale sulla prevaricazione, e il modello di relazione che va introiettando è per così dire più forte del “video game”. Non viene introiettato un modello in cui il messaggio è “con la violenza puoi ottenere quello che vuoi”. Per spiegare certi comportamenti osservati dopo la visione di scene violente, entrano in gioco ancora una volta i “neuroni specchio”. I neuroni specchio sono implicati nell'imitazione, ma anche nella tendenza a imitare, in modo non del tutto consapevole. Voglio dire che i neuroni specchio ci portano a “simulare” quanto osservato e chiaramente lo facciamo anche in modo inconsapevole. Sicuramente esiste per “colpa” dei neuroni specchio una correlazione temporale tra quanto osserviamo e quanto riproduciamo nei nostri comportamenti, nel bene e nel male.
Ma ciò non ci permette di concludere che esiste anche un rapporto causale tra video game e comportamenti violenti. Tutte l'esperienze plasmano

"I NO non servono"

Quando ci sentiamo dire di NO, anche se capiamo che è fatto per il nostro bene, ci infastidiamo, ci arrabbiamo, e ci possiamo mettere in un atteggiamento di resistenza e di contrasto. Questo vale ancor di più con i bambini che seguiamo durante la terapia riabilitativa. Il NO è poco tollerato e causa resistenza, grida e atteggiamenti di rifiuto. Il bambino non è in grado di tollerare la frustrazione e non ha ben chiaro il perché del NO anche se lo abbiamo spiegato e lo abbiamo preparato per tempo.
Ma a volte può risultare utile per ottenere un “maggiore controllo” sul bambino cambiare approccio e passare dal NO, dal “questo non si fa” e basta, al messaggio positivo, alle istruzioni sulle azioni da seguire, piuttosto che su cosa non si deve fare. Se poi aggiungiamo un atteggiamento sereno e di accettazione, ecco che otteniamo quello che volevamo, con più facilità. “Non buttare le cose a terra” diventa “raccogliamo le cose da terra”, “siediti”

"Prevenire la dislessia".

Alcuni bambini durante gli anni di scuola materna, possono presentare dei “difetti di pronuncia” nel linguaggio, in particolare sostituiscono i suoni all'interno delle parole, per cui la parola cavallo diventa “tavallo” o possono omettere alcuni suoni per cui la parola semaforo diventa “foro”. Alcuni di questi bambini migliorano spontaneamente, cioè anche se non vengono seguiti da una logopedista. Ma questi stessi bambini, che prima parlavano male e ora parlano bene, possono mantenere ancora qualche difficoltà di “programmazione fonologica”, per cui non riescono a pronunciare bene, semplicemente su ripetizione, parole lunghe, nuove, non solo “supefragilistica.....o precipitevolissime......, ma anche talismano, tecnocrate, ecc., ecc.. Anche in questi casi i bambini possono avere difficoltà con l'apprendimento della lettura, perché sia

Insegnami e io imparerò.

I bambini con ritardo dello sviluppo, che fanno la riabilitazione, grazie agli stimoli che ricevono e alle esperienze che fanno a casa, a scuola, nel centro di riabilitazione, migliorano le loro abilità: il linguaggio, l’attenzione, la comprensione, la motricità. Ma alcuni bambini apprendono solo a casa o solo al centro, o solo a scuola e poi non riescono a generalizzare questi apprendimenti. Ad esempio se il bambino ha imparato  il nome dei vestiti o dei cibi, poi non utilizza queste nuove parole a casa quando viene vestito e quando mangia. In alcuni casi occorre semplicemente del tempo. In altri casi occorre riprodurre in tutti i posti in cui il bambino vive quelle situazioni che favoriscono per quel bambino l’apprendimento: concedere il tempo e fornire l’aiuto necessario, suscitare l’interesse e stimolare la motivazione. A volte le mamme e i papà per mille motivi non riescono ancora con il loro bambino a fare emergere le sue potenzialità, e quindi a ottenere anche a casa gli stessi apprendimenti ottenuti al Centro. In questi casi si possono aiutare Mamma e Papà: aiutandoli a conoscere ancora meglio il loro bambino, incoraggiandoli a confrontarsi per superare eventuali paure e infine facendo le cose insieme a loro, accanto. Spesso non bastano gli incoraggiamenti e le spiegazioni su come stimolare il bambino, ma occorre sedersi e fare insieme, ora io, ora tu. Riporto la testimonianza di una Mamma: "non esistono cose che non posso fare, aiutami e guidami concretamente, passo dopo passo. Imparerò. Tu studi e lavori da tanti anni, io sto iniziando adesso a capire. Ce la metterò tutta per imparare presto"

Cosa chiede la mamma del bimbo disabile.

La mamma chiede innanzitutto una cosa e cioè di essere capita, nella propria sofferenza silenziosa, fatta di sacrifici e di rinunce. Lei fa sempre il meglio, anche quando non ascolta e non segue immediatamente le nostre indicazioni. Non è semplice modificare le nostre abitudini, le convinzioni, le idee, anche di fronte all’evidenza. Fa parte di noi. Per esempio siamo consapevoli di dover fare una determinata dieta, ma non riusciamo ad essere all’altezza del compito, troviamo mille scuse per rimandare o per abbandonare. Per questo non possiamo pretendere da parte dei genitori un’immediata adesione a tutto ciò che diciamo. Se vogliamo aiutare le mamme ad ascoltarci e a seguirci,

Impariamo a conoscere il nostro bambino disabile.

Molti bambini che presentano un ritardo dello sviluppo cognitivo, motorio o del linguaggio intraprendono insieme alla loro famiglia un percorso riabilitativo. E per questo frequentano un Centro di riabilitazione, dove si rapportano con varie figure tra cui in particolare il terapista. La prima cosa che viene fatta al Centro di riabilitazione è conoscere il bambino attraverso degli incontri in cui si gioca insieme, si dialoga, si cerca di entrare in sintonia. E poi si organizzano le attività per il bambino e gli si dedica il nostro tempo. Il bambino gradualmente impara a giocare, a comunicare, a rispettare le regole, ad ampliare le sue conoscenze, a progredire nel suo sviluppo motorio, compatibilmente sempre con le sue capacità. Lo stesso bambino torna a casa  e trova un ambiente in cui tutti gli vogliono un gran bene, ma non hanno ancora organizzato le attività per lui.
Lui qui si deve adattare, deve fare le stesse cose che fanno gli altri, come le fanno gli altri, ma in questo momento semplicemente non può riuscirci. Fino a quando non conosciamo il nostro bambino per quello che è, forse non faremo quelle cose, quelle attività che lo possano aiutare e fare stare meglio.
Cosa ci permette di conoscere il bambino?. Sicuramente le conoscenze e l'esperienza ci permettono di "vedere oltre" e per questo ci affidiamo a chi ne sa più di noi: medici, terapisti, psicologi. Ognuno di noi infatti nel proprio lavoro finisce per diventare un esperto che intuisce e capisce certe cose prima di tanti altri. E poi,  e questa è la cosa più difficile, occorre conoscere se stessi. Per capire se quello che chiediamo al nostro bambino non è in realtà qualcosa di cui abbiamo bisogno noi e non lui. Per esempio, il bambino deve assolutamente camminare e parlare come gli altri perché solo in questo modo io papà o io mamma mi sento confermata nel mio ruolo, gratificata, realizzata, serena, anche a costo di sottoporre il bambino a "inutili terapie", che poi non portano al risultato tanto sperato.

L'importanza dell'equipe riabilitativa.

Un bambino disabile cambia gli equilibri e le dinamiche consolidate all'interno della famiglia, e costringe tutti a un riadattamento. Per aiutare il bambino e la sua famiglia ci sono ruoli e competenze diverse: il terapista, lo psicologo, il medico, l'assistente sociale, l'educatore. I tempi e i modi di questo percorso di adattamento non sono pre stabiliti, pre confezionati. Ognuno in famiglia fa la sua parte nel modo migliore possibile. Qualcuno commette degli errori secondo il mio modo di vedere, ma gli stessi comportamenti sono considerati normali agli occhi di qualcun altro. Non c'è la verità. Ci sono dei bisogni, delle paure da accogliere senza giudicare.
Una mamma segue perfettamente le indicazioni fornite dalla terapista, un'altra mamma non lo fa. Ma la prima mamma cerca in modo particolare le prestazioni del figlio per ottenere gratificazioni e conferme al proprio ruolo di mamma, la seconda mamma sta cercando di capire cosa succede e ascolta e medita in silenzio. E allora qual è la verità?. Non esiste un comportamento giusto e uno sbagliato. Ci sono le situazioni e le persone con le loro emozioni da comprendere e accogliere, tutto il resto viene da se, perché le nostre aspettative, le nostre pretese, le nostre costrizioni non cambiano le persone. Le persone cambiano quando sono pronte e noi dobbiamo essere lì.

Il metodo Vojta "riconosce" il neonato?

Il neonato ruota il capo alla ricerca dello sguardo della madre e poi entrambi si scambiano sorrisi e vocalizzi. Il neonato imita la vostra faccia buffa o esprime disappunto se gli proponete ancora latte dopo una bella poppata. E presto si lascia consolare rannicchiandosi tra le vostre braccia rilassate, riuscendo a percepire l'intensità simile delle vostre carezze e della vostra voce. Riconosce il vostro volto e l'odore del latte della propria mamma. Riconosce visivamente tra più ciucci quello che ha tenuto in bocca. Sono alcune delle competenze osservate e studiate nel neonato. E chi ha figli sa di cosa sto parlando. Chi pratica il metodo Vojta con i bimbi piccoli che hanno un ritardo ha l'obiettivo di far apprendere dei movimenti attraverso delle manovre che evocano nel neonato dei movimenti riflessi. I riflessi sono dei movimenti inconsapevoli, sempre uguali, non volontari. Sembra in questo modo che venga proprio ignorata invece la natura intenzionale dei movimenti che può compiere il neonato, la loro carica affettiva e la loro natura relazionale. Il neonato nel suo sviluppo non trasforma riflessi in azioni, cioè movimenti finalizzati a raggiungere uno scopo. Neanche i cosiddetti riflessi arcaici sono dei veri riflessi, ma dei movimenti finalizzati: la marcia automatica per progredire nel canale del parto, il riflesso di prensione per "aggrapparsi" al cordone ombelicale, ecc. E nel caso di feti gemelli si sono osservati dei movimenti diversi, nuovi, nella forma se sono diretti a entrare in contatto con il fratellino.
Anche il movimento più semplice ha un fine: quando ancora è molto piccolo il neonato apre e chiude la mano se vede un oggetto, che solo dopo sarà in grado di afferrare. Si sta esercitando. E allora perché non tenere conto delle competenze del bambino per promuovere lo sviluppo psicomotorio? Perchè non tenere conto che ogni movimento serve a conoscere il mondo e a entrare in relazione, i movimenti non possono essere dei riflessi. Ma i bimbi con un grave ritardo si muovono poco, e non è facile interagire con loro. Ma le leggi che regolano l'apprendimento sono comunque le stesse: ho un oggetto che suscita un interesse e interagisco per conoscerlo, per giocarci adattando i movimenti, incorporando così nuovi schemi e nuove azioni.

Cosa insegnare al bambino con ritardo

I  bambini piccoli apprendono in modo spontaneo, cioè senza che ci preoccupiamo di insegnare loro le cose. Semplicemente imitano quello che vedono e che sentono,  e ripeteranno tutto ciò che suscita l’attenzione di genitori e compagni o che li gratifica. Ma ci sono altri bambini che per qualche difficoltà o perché presentano un ritardo dello sviluppo, hanno invece bisogno di un insegnamento mirato. E allora cosa insegniamo?. Su cosa si focalizza il nostro insegnamento?. Tutto dipende da ciò che il bambino fa e da ciò che è in grado di fare con il nostro aiuto, che può essere una spiegazione, una guida fisica (guidare le mani) o una dimostrazione. In questo caso si parla di abilità emergenti, potenzialità o area di sviluppo prossimale. Ed è sulle abilità emergenti che posso concentrare il mio insegnamento. Se il bambino riesce a colorare la palla solo con il mio aiuto, gradualmente andrò a ridurre il mio aiuto in modo che diventi autonomo a svolgere il compito.
E ciò che vado a proporre si colloca un po’ più avanti rispetto al livello attuale delle abilità del bambino. In molti casi il criterio per capire cosa proporre è il buon senso: se non copia una palla, non gli posso chiedere anche di copiare una lettera, perché è molto più difficile, se non sa denominare gli oggetti non gli chiederò di che colore sono, se non sta ancora seduto da solo non posso  metterlo in piedi, ecc. Quindi riepilogando consideriamo e insegniamo ciò che il bambino sa fare con un po’ di aiuto, tra le cose che si collocano un pò più avanti rispetto a quello che fa da solo. E poi consideriamo che il bambino può essere stanco, si può annoiare, o vuole stare con la sua mamma.

Il movimento è conoscenza.

Ci sono bambini con paralisi cerebrale infantile che vengono sottoposti a una serie di esercizi passivi, cioè esercizi in cui sono gli operatori che muovono ripetutamente le loro gambe, le mani, i piedi. Il bambino da solo non ci riesce. Come se il movimento indotto da altri potrebbe far superare nel bambino la sua paralisi. Lo so è una visione incompleta e riduttiva, ma se potessimo veramente vedere dentro il suo cervello in questi casi potremmo dire di non vedere assolutamente niente, perché non c'è partecipazione da parte del bambino. E non “vedere niente” significa che non stiamo attivando le aree cerebrali del movimento, della volontà, della percezione, (che è quello che servirebbe), anche se il movimento venisse ripetuto centinaia di volte. Cioè non stiamo riabilitando assolutamente niente.
Se invece chiedessimo allo stesso bambino di sentire e quindi di prestare attenzione a quello che gli faccio toccare, di descrivermelo, di sentire l'arto, di pensare a come risolvere un problema, naturalmente adattato al bambino.....allora in questi casi stiamo facendo esattamente quello che abbiamo sperimentato tutti e che sperimentiamo ogni volta che ci muoviamo: un movimento intenzionale, attento, finalizzato a raccogliere informazioni.  
Perché il movimento è conoscenza, e necessita di motivazione, di interesse, di partecipazione, ed è relazione con qualcuno o con qualcosa. 



Non puoi conoscere il tuo bambino su internet.

I bambini piccoli per la presenza di difficoltà dello sviluppo più o meno gravi, in seguito a visite e controlli, possono ricevere una qualche diagnosi. Quando la famiglia riceve questa diagnosi vuole capirci di più e in genere lo fa attraverso internet.  Alcuni genitori approfondiscono anche attraverso dei corsi o la lettura di libri. Sappiamo tutti che la diagnosi da sola non può mai riuscire a definire e a raccontare  il bambino che abbiamo visitato e con cui abbiamo giocato, e su internet non possiamo trovare la spiegazione di tutto, perché i bambini sono diversi e unici. E leggendo su forum e siti più o meno specializzati
cerchiamo tutto ciò che conferma la nostra visione del bambino. Inoltre a volte possiamo fare i conti con proposte e spiegazioni del problema diverse da quelle fornite dal medico che ha visitato il bambino. Ci sono tante domande che neanche sappiamo formulare bene o per cui non siamo ancora pronti a ricevere una risposta. Vorremmo conoscere il futuro, abbiamo delle aspettative,

Io da piccola ho usato il girello.

In un precedente post ho spiegato alcuni dei motivi per cui sconsigliamo l’uso del girello per i bambini. Quando lo spiego durante la visita mi rendo conto, il più delle volte, di incontrare qualche timida forma di resistenza. L’osservazione più comune che viene fatta dalle mamme è “la sorellina l’ha usato e non ha avuto nessun problema, così come io da piccolina”.  Riconosco che c’è indubbiamente una parte di verità, nessuno non ha camminato per colpa del girello, al massimo ha ritardato il cammino autonomo. Prima di camminare da solo il bambino esercita l’equilibrio con le mani e questo non lo sperimenta come dovrebbe se usa il girello, quindi potrebbe ritardare questa tappa motoria.
Quello che posso dire è che l’esperienza più “corretta” è quella di lasciare libero il bambino di sperimentare le proprie capacità, senza metterlo in piedi

L'asilo fa bene ai bambini autistici?

Il bimbo presenta un disturbo dello spettro autistico, per cui consigliano alla mamma di inserire il figlio all'asilo per favorire lo sviluppo del linguaggio. Il bambino non ha ancora 3 anni e si “relaziona” solo con mamma e papà. Quando vuole qualcosa trascina i genitori o saltella davanti la cosa desiderata. Non parla, qualche volta ripete dei suoni o dei pezzetti di parole. Se si cerca di richiamare la sua attenzione su un oggetto lui tende a guardare da un'altra parte o continua con il suo gioco. Con le bolle di sapone si riesce a catturare la sua attenzione e ad ottenere uno scambio di sguardi, anche se di breve durata.

Per camminare servono le mani.

Osservare le conquiste dei bambini soprattutto quando sono più piccoli è qualcosa che suscita stupore, meraviglia. Sappiamo che ciascun bambino ha in se il programma per acquisire le abilità necessarie per interagire e per conoscere il mondo. Se osserviamo le conquiste motorie constatiamo che il bambino progredisce gradualmente passando da una tappa all’altra secondo un ordine preciso: ad esempio prima di poter stare in piedi sarà in grado di stare seduto e di fare quei passaggi posturali che gli consentono di mettersi in piedi da solo. Ma una volta conquistata da solo la stazione eretta ecco che si serve delle mani per mantenerla, le usa per appoggiarsi al divano e alle sedie, sollevando le braccia le usa per mantenere l’equilibrio quando tenta i primi passi,
 le usa per non farsi male quando perde l’equilibrio e cade a terra, le usa per toccare gli oggetti con una mano mentre con l’altra si appoggia. Siamo sicuri che se lo teniamo noi adulti

Per capire ciò che leggi devi usare la memoria di lavoro

La memoria è una funzione che ci permette di ricordare cose passate e recenti. Ma c’è un’altra funzione collegata che è altrettanto importante e che si chiama memoria di lavoro. La memoria di lavoro è quella funzione che ci permette di trattenere a mente delle informazioni e modificarle secondo una data istruzione: se vi chiedo di ripetere 5 cifre nella stessa successione in cui le avete ascoltate (8-4-9-2-5) state facendo lavorare la memoria a breve termine, ma se vi chiedo di ripetere le cifre al contrario di come  le avete sentite, (5-2-….) state stressando la vostra “memoria di lavoro”. Se vi chiedo di segnare il mio numero di telefono state utilizzando la memoria di lavoro. E ancora, tra una serie di oggetti che vi faccio ascoltare mi dovete ripetere solo quelli che servono per mangiare. Non si tratta di ricordare e basta, ma mentre trattenete le informazioni ci lavorate su. Cosa fanno i bambini che stanno imparando a leggere?, se si trovano alle prese con la lettura di una parola di tre sillabe come “tavolo”, inizialmente leggeranno una sillaba alla volta, ta-vo-lo, e a mente, grazie alla memoria di lavoro, oltre che ricordare le sillabe appena lette le collegano, fanno cioè una sintesi sillabica, vi guardano e vi dicono con aria soddisfatta “tavolo”. Ma la memoria di lavoro

Non giudichiamo i bambini.

I bambini possono presentare nella loro storia una qualche difficoltà, più o meno grave, più o meno transitoria. Quando valutiamo questi bambini, o quando esprimiamo un giudizio su di loro, la nostra mente in modo sistematico e più o meno consapevole opera dei confronti tra come il bambino è e come secondo noi dovrebbe essere. E di conseguenza non siamo pienamente soddisfatti fino a quando non viene raggiunto quel dato obiettivo, quel comportamento, fino a quando non cammina da solo, fino a quando non inizia a parlare come gli altri bambini, o a scrivere come la compagnetta,
o ancora fino a quando non soddisfa i miei desideri. Fateci caso, abbiamo in testa dei nostri parametri di giudizio che si innescano nella nostra mente in automatico. E il bambino questo lo sente, anche quando le nostre parole dicono il contrario. Questo "continuo giudicare" non ci fa stare bene perché la realtà è appunto diversa da quella che desideriamo, anzi

La plasticità cerebrale

Il cervello è costituito da diverse parti, ognuno delle quali è per così dire specializzata a farci svolgere una determinata funzione. Ad esempio il lobo occipitale che si trova nella parte posteriore del cervello, è specializzato nella funzione della visione. Questa zona del cervello si sviluppa perché riceve stimoli visivi dall’ambiente e più correttamente tramite le fibre nervose che trasportano impulsi generati a livello della retina degli occhi. Questa zona del cervello se non ricevesse gli stimoli visivi non si svilupperebbe.  Il cervello si modifica nel tempo in base alle attività che svolgo. Se mi esercito con uno strumento musicale, la zona del cervello che è specializzata nell’ascolto della musica e nel suonare lo strumento si attiva con maggiore intensità, rispetto ai periodi precedenti in cui non mi fregava niente della musica.

I rischi della nascita prematura

I continui progressi dell’assistenza neonatologica hanno prodotto una diminuzione notevole della mortalità tra i bambini nati pretermine. Per quelli che non hanno danni neurologici evidenti è difficile fare previsioni sulle possibili conseguenze della prematurità sul loro sviluppo. I bambini che non presentano “danni neurologici maggiori” (paralisi cerebrali infantili) possono sviluppare disturbi specifici, cioè difficoltà a carico di alcune funzioni come la memoria o il linguaggio o l'attenzione, mantenendo comunque una capacità intellettiva nella norma. Alcuni bambini pretermine sono a rischio di sviluppare disturbi del linguaggio. (leggi qui), per gli effetti dell’interazione tra fattori biologici (“immaturità”) e adattamento all’ambiente. Le difficoltà di linguaggio possono interessare a vari livelli la fonologia, cioè la corretta produzione delle parole e la morfosintassi, cioè la corretta produzione delle frasi. Alcuni studi evidenziano che una buona comprensione di parole ed un uso di gesti comunicativi nel secondo anno di vita siano dei buoni indicatori del primo sviluppo verbale cioè vocabolario e prime combinazioni di parole. Altri bambini possono sviluppare una forma di disprassia. Ovviamente in tutti i casi è possibile individuare e intervenire precocemente su tutte le difficoltà.


Costruiamo le categorie

I bambini, fin da piccoli organizzano le loro conoscenze in categorie. Una categoria è ad esempio un gruppo di oggetti accomunati dalla stessa funzione. Oggetti diversi nella forma e nel colore appartengono alla stessa categoria perché svolgiamo con essi la stessa azione. Un bambino può capire che un piccolo contenitore rosso che non ha mai visto prima è una tazza nel momento in cui capisce che serve per bere, esattamente come la grande tazza bianca con i fiori che usa tutti i giorni. Il bambino intuisce l’azione perché la simula “nella sua testa” e in questo modo riesce ad astrarre una caratteristica che non è visibile: serve per bere. Due porte di colore diverso inducono nel cervello lo stesso piano motorio anche se sono differenti nel colore o nella dimensione. Così è bastato che qualcuno ci ha detto che quella tavola con la maniglia si chiama porta, per generalizzare questa conoscenza a tutte le porte

Il neonato imita.

Il bambino inizia a imitare molto presto, addirittura da neonato. Aprite la bocca e uscitegli la lingua, dategli un po’ di tempo e presto quell’esserino proverà a fare la stessa cosa. La cosa bella è che il neonato riesce a imitare anche se non sa ancora di avere una bocca e una lingua e non è in grado di osservarsi. Cioè per imitare non sta ad osservare voi e poi lui e ad aggiustare l’azione in base al confronto visivo. Lui, invece, riesce a confrontare un’”immagine visiva”, che è il vostro volto “buffo” con la lingua di fuori, con la sensazione della sua bocca che si apre e la lingua che si sposta in avanti. E’ in grado di imitare mettendo a confronto due sensazioni diverse: una visiva e una propriocettiva. Semplicemente fantastico. Lo fa. E guarda più a lungo tra vari ciucci quello che ha tenuto in bocca.Il neonato in posizione supina presto riuscirà a ruotare il capo e a orientarlo verso il volto della mamma  o verso qualcosa che fa odore del latte della propria mamma. E a soli 2 mesi inizia a sorridervi, a stabilire un contatto di sguardo e ad emettere suoni gutturali e a interagire come delle persone separate da voi.
Si è addirittura osservato che feti gemelli nella pancia della mamma presentano gesti diversi dal solito, nella forma, se sono orientati a “entrare in contatto” con il  fratellino. E’ proprio vero che siamo programmati per stare con gli altri. E grazie a questo programma il neonato può entrare in contatto con chi si prende cura di lui.  E in questo modo può finalmente "rinascere",

perché non voglio giocare con te

I bambini con disturbo dello spettro autistico non interagiscono con le persone che incontrano, nel modo che sperimentiamo noi, perché non sentono cosa vuole o cosa prova l’altra persona. Non riescono a cogliere le “mille espressioni” che regolano le nostre interazioni. E ancora non riescono a capire che il comportamento che abbiamo può variare a seconda del contesto in cui ci troviamo: al bar, al supermercato, dal dottore, al cinema, ecc. E ciò che è compromessa, ma in misura diversa per ciascun bambino, è non solo la capacità di relazione in se, ma anche la possibilità fin dalla nascita di uno sviluppo regolare di tutte quelle abilità che concorrono a farci diventare competenti sul piano sociale: lo sguardo, l’attesa e il rispetto del turno, l’attenzione e l’emozione condivisa, ecc. Per loro è davvero difficile interpretare i nostri sguardi, le nostre espressioni, le differenti intonazioni della voce, la diversa modulazione mimica, le intenzioni, i desideri e le opinioni, perché ci sono innumerevoli variabili.

Rompiamo gli schemi mentali.

Lo sviluppo e la salute mentale di ogni bambino dipende dalle relazioni e dall'ambiente in cui vive. Il bambino si adatta all'ambiente in cui vive, ma anche l'ambiente si modifica a seconda delle caratteristiche del bambino: bambini con un temperamento vivace o più "lenti" nelle attività e così via.  All'interno delle relazioni intervengono indubbiamente le nostre interpretazioni sui comportamenti osservati. Ad esempio il neonato ha un piccolo rigurgito fisiologico dopo ogni pasto
e i genitori interpretano questa cosa e pensano che così il loro figlio non si nutra a sufficienza e allora provano ad aumentare la quantità del pasto. E il bambino continua a rigurgitare. Tutto questo può essere interpretato dai genitori come un problema e quindi può interferire sulla relazione, perché i genitori non sono naturalmente sereni e questo il neonato lo sente e reagisce. A parte l'esempio, a volte non riusciamo a vedere il nostro bambino, le sue sensazioni, i suoi vissuti, le sue emozioni, le sue motivazioni perché siamo semplicemente bloccati nel nostro schema mentale: non si piange, non puoi desiderare questa cosa, come fai a non capire, ecc. E' possibile interrompere tali dinamiche?. Certo. A volte ci riusciamo da soli, altre volte con l'aiuto di qualcuno, soprattutto se abbiamo riflettuto su noi stessi e su come i nostri giudizi, le nostre convinzioni, i nostri schemi mentali, che sono legati alla nostra storia personale, influenzano le nostre relazioni. Il percorso che ci porta a essere più consapevoli è individuale, ma occorre "fermarsi" per iniziarlo, per riflettere. Lo schema mentale non ci fa essere liberi fino a quando non siamo consapevoli che si tratta appunto semplicemente di uno schema mentale che ci fa agire in automatico, senza pensare. Essere consapevoli significa sintonizzarci con il nostro bambino e con le nostre emozioni, e il resto verrà da se.

I viaggi della speranza.

Il bambino quando è nato ha avuto una grave sofferenza e ha subito dei danni cerebrali, per questo oggi presenta una forma di paralisi, cioè non è in grado di stare seduto da solo, non riesce a stare in piedi, non si muove, non afferra gli oggetti. E’ seguito presso un centro di riabilitazione dove effettua la fisioterapia. E’ in grado di raccontare qualche cosa e di esprimere i propri bisogni. I genitori non si arrendono a questa situazione e vanno in cerca di una soluzione. Hanno sentito parlare di un centro lontano all’avanguardia, dove seguono bambini come il loro. Dopo aver raccolto i soldi, arrivano in un centro bellissimo dove vengono accolti amorevolmente. E’ un contesto diverso, non familiare, ma poco importa. Ci sono tanti soldi da sborsare, ma anche questo non è importante perché i genitori hanno la speranza, anzi sono convinti che in quest’altro centro possono veramente aiutare il loro bambino. La prima cosa che viene detta con molta sicurezza è che loro hanno fatto camminare bambini anche più gravi. Quelli che dicono che il bambino va rispettato e accettato così com'è non capiscono proprio niente. Nel centro bellissimo viene sottoposto ad un trattamento intensivo con il metodo Doman, e ancora vengono proposti ripetuti esercizi passivi. Fisioterapisti che fanno muovere al bambino in continuazione gambe e braccia. Non è importante quello che sente o che prova il bambino, l’esercizio passivo secondo loro può far superare il danno cerebrale. E non importa che il metodo Doman fa parte della storia della medicina, nemmeno lo si studia più nelle scuole, perché è vecchio, superato e sconfessato dagli studi neuro scientifici.
E alla fine delle tre settimane il bambino è naturalmente migliorato, ma solo agli occhi di chi ha investito soldi e speranze. E se il bambino non continuerà a migliorare è perché gli altri non sono bravi abbastanza e non lo saranno mai a sufficienza.

Non riconoscere il miglioramento significherebbe accettare una realtà dolorosa. Significa capire che non è colpa di nessuno, che il bambino non deve essere il bambino che voglio io, lui è e basta, a prescindere da quello che fa o che non fa.

Il bambino non è aggressivo.

 Il bambino non si addormenta, non vuole dormire nel suo letto, si sveglia durante la notte. Non vuole mangiare, strilla, non mi ascolta, risponde male. E’ capriccioso. E’ aggressivo. Non vuole farsi i compiti.  Quando raccontiamo i nostri bambini, quando raccontiamo la loro storia, quando il medico raccoglie l’anamnesi, le nostre parole descrivono difficoltà e problemi come appartenenti solo al bambino. Questi  comportamenti descritti, e tanti altri, invece, nascono  e si svolgono nella relazione, in un contesto particolare, all’interno dei rapporti tra persone, tra genitori e  figli. Ed entrambi mamma e figlio hanno un ruolo.  La “difficoltà” del bambino è la difficoltà della triade, cioè di mamma, papà e figlio. Inoltre la difficoltà è a volte considerata tale, ma in realtà fa parte della fisiologia. Quando il bambino non riesce ad addormentarsi cosa succede realmente?, come reagisce la madre?, cosa pensa il padre?, cosa fanno?, si contraddicono?, non riescono a separarsi e perché? Cosa stanno provando i genitori? E tale analisi non serve assolutamente a individuare colpe, ma semplicemente a capire. A capire che magari stiamo reagendo senza essere consapevole delle motivazioni che stanno dietro a quel comportamento. E quando capiamo e conserviamo un atteggiamento di apertura, il comportamento di tutti cambia naturalmente. Se il bambino “aggressivo”mi aggredisce e io capendo la sua rabbia e la sua sofferenza, lo abbraccio e mi sintonizzo con le sue emozioni e il suo punto di vista, lo stesso bambino non sarà descritto come aggressivo.   

L'autismo non è una malattia.

L'autismo non è una malattia, ad esempio come un'infezione che possiamo curare con una terapia antibiotica che agisce direttamente sulla causa.
L'autismo è un modo di essere, un modo diverso di vedere la realtà, e ogni bambino con autismo è diverso dagli altri, ed è per questo che una terapia specifica, che agisca sulle cause, non può esistere.  Non avendo una cura specifica come nelle infezioni, purtroppo, si diffondono tanti metodi di trattamento. Alcuni di questi sono alternativi rispetto a quelli ufficiali. La diffusione dei metodi alternativi (comunicazione facilitata, terapia chelante, metodo DAN) può essere favorita più che dai risultati, dal modo con cui vengono presentati. Si prospettano soluzioni semplici e spiegazioni semplici del problema. (peraltro non verificate da nessun studio scientifico e non possiamo basarci sulle testimonianze). Inoltre nella storia di ciascun bambino ci sono tanti miglioramenti, sia spontanei, sia conseguenti ad altri trattamenti, che date le aspettative, si tende ad attribuire al metodo alternativo utilizzato. In uno studio i genitori erano convinti che il loro bambino stesse migliorando grazie alla terapia X, anche se in realtà il bambino stava assumendo solo un placebo. E allora dato che le certezze le abbiamo utilizziamo ciò che è sicuro. Per esempio sappiamo come il bambino apprende. Puoi leggere qui.

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