Ho conosciuto tanti bambini con la dislessia. La famiglia si
rivolge a me per la diagnosi. Tutti hanno un percorso scolastico simile: la difficoltà ad apprendere a leggere
e a scrivere e la lentezza e gli errori nella lettura e nella scrittura. Ma nel
momento in cui spiego quali sono le difficoltà del bambino, descrivendo un
quadro che è diverso da quello che si erano fatti, ecco che la mamma si ferma e
riflette e ha uno sguardo di comprensione verso il suo bambino. E’ come se
finalmente qualcuno riconosca le cose per come realmente sono. Invece finora si
doveva andare dietro i soliti schemi: è svogliato, non si esercita abbastanza, deve
leggere di più, se non legge bene è perché sta poco attento. Ora c’è una sorta
di rivincita. Finalmente!. Ma a questo punto che si fa. Il mio pregiudizio è
che le cose non cambiano perché c’è una diagnosi, una certificazione. Perché il
bambino è intelligente, non ci sarebbe bisogno di certificarlo. Può seguire gli
stessi programmi, adattando con cura e creatività la didattica. E curandoci del
bambino. E non è necessaria una
certificazione per gratificare comunque un bambino che è lento nella lettura.
Perché se vogliamo motivarlo gli dobbiamo dire che è bravo, perché è bravo
realmente. Se vogliamo motivarlo allo studio deve essere gratificato sempre,
anche quando sbaglia: “ti sei impegnato davvero, riguarda queste parole, hai
letto meglio di ieri”. Se è visto “lento”, “incapace”, non ce la farà, si
stancherà e perderà la voglia di studiare. Possiamo vedere il bambino al di là
di come legge e scrive?: “E’ molto intelligente, se solo si impegnasse nella
lettura…”. Non dimenticherò mai, invece, una frase dell’insegnante di scuola
elementare di mio figlio, di fronte alle pagine scritte male: “ma questo è lui”.
Come dire, va bene così. Qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo non si
sprona il bambino. NO. Perché il genitore si sente sollevato e non sta a
giudicare il suo bambino, e lo sa già come aiutarlo, lo fa già.
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