I rischi dell'ABA

G. è un bambino autistico di 5 anni. Gli piacciono tanto le macchinine e si dispera quando si cerca di interrompere il suo gioco. Per diverse ore a settimana è impegnato con l’ABA. Ha sviluppato il linguaggio verbale, denomina tante figure, risponde a semplici domande: “ come ti chiami ?”, “quanti anni hai ?”, ecc. Secondo l’ultimo programma che è stato fatto da un importante supervisore il bambino deve imparare a fare almeno 5 mand, cioè delle richieste spontanee. Questo significa che G., se vuole qualcosa come l’acqua o come la sua brioscina, la deve richiedere spontaneamente, senza alcun suggerimento: solo se formula la frase “voglio acqua” la mamma gli darà un po’ di acqua senza soddisfare del tutto il suo bisogno, in modo che G. ritorni presto a richiederla. La mamma conosce e applica bene la procedura per insegnare i mand. Ha nascosto le macchinine e l’acqua e le merendine non sono a portata di mano. È molto coinvolta e vuole dimostrare di poter ottenere dei risultati.
Un giorno G. mentre stava giocando inizia a piangere perché si è rotto il suo giocattolo, e si dispera come tanti bambini in queste occasioni. “Cosa è successo?” chiede la mamma, “rotto” risponde, piangendo il bambino. Inizia uno scambio fatto di domande e risposte, anche se la mamma pensa che questa sia l’occasione per ottenere dei mand. È un momento, in cui c’è condivisione, il bambino ha fatto anche qualche “commento”, la mamma insiste un po’ per ottenere qualche richiesta che prova a suggerire, ma il bambino “non recepisce”. 
Presto la mamma si accorge che ciò che sta avvenendo è molto più importante dei “suoi” obiettivi. Il bambino esprime delle emozioni e ha bisogno di essere consolato. Allora la mamma mette da parte i suoi programmi e abbraccia il bambino. Lui si lascia abbracciare e piano piano si calma. “lo possiamo ricomprare” gli sussurra la mamma…senza preoccuparsi di niente, senza preoccuparsi di poter “rinforzare” così il suo pianto.
Aveva presto capito che il bambino non è la sua diagnosi o i suoi mand da ottenere e mostrare. Era tanto condizionata da tecniche d’insegnamento e spiegazioni dei comportamenti, che, per un attimo, aveva perso l’intensità di un momento. E aveva anche capito che il suo bambino avrebbe fatto comunque le richieste anche senza i suoi interventi, perché lui già risponde alle domande, perché lui fa i commenti, perché lui esprime le emozioni, senza alcuna procedura.
            
   


Dopo la prima visita...alcuni scenari

Vedo il bambino per la prima volta all’età di 18 mesi. Attraverso il gioco, se è messo a suo agio, ho la possibilità di conoscerlo e di osservare il suo comportamento. Chiedo anche ai genitori se il bambino è stato diverso rispetto a come loro lo conoscono. Ovviamente  confermo loro che a casa il bambino mostra con più facilità tutto le cose belle che fa.

Posso riscontrare degli aspetti del comportamento e dello sviluppo che rientrano, per così dire, all’interno della variabilità fisiologica: un bambino può camminare a 15 mesi e uno a 12 mesi, in entrambi i casi lo sviluppo motorio è regolare.

Posso riscontrare delle difficoltà che non configurano affatto un disturbo e sto molto attento a non prefigurare nessuna diagnosi futura, perché il bambino mostra comunque delle abilità che mi fanno capire che supererà le difficoltà osservate: non sale e scende le scale, ma lo fa con appoggio e quindi da qui a poco se gli si da fiducia andrà da solo. In questi casi non è necessario, secondo me, fare alcuna riabilitazione.

Posso invece avere un sospetto, perché riscontro determinate difficoltà. Qui la situazione diventa più delicata. Condivido con la famiglia le mie osservazioni e indico e faccio vedere cosa è utile fare con il bambino. Faccio degli esempi, ascolto le loro preoccupazioni, li sostengo, rinforzo quello che già fanno a casa o che mi fanno vedere, programmo nuovi incontri a breve termine. Non comunico nessuna diagnosi in questi casi, perché sono necessarie altre osservazioni e visite. 

Posso anche proporre un percorso riabilitativo per le difficoltà riscontrate.

Ricordo che la terapia la facciamo al bambino, non alla diagnosi del bambino.  

Se la diagnosi è chiara fin dall'inizio, ovviamente la comunico con i tempi e i modo opportuni.

Poi, purtroppo, in presenza di alcune difficoltà, ci sono diagnosi e sospetti diagnostici sbagliati che vengono comunicati. In questi casi si mette in moto un percorso legato a quel tipo di diagnosi, che magari non era del tutto necessario, ma che è ormai difficile da arginare. Il bambino fa dei progressi, ma li avrebbe fatti comunque anche senza tutta quella terapia.

C'è chi sostiene che la terapia riabilitativa in questi casi non ha effetti collaterali. Dipende...Dipende da tante variabili.   




   
      




Autismo e psicomotricità

Le linee guida sull’autismo indicano come prima scelta di trattamento l’intervento cognitivo comportamentale, per intenderci l’ABA. Ma le prestazioni dell’ABA non sono garantite dal sistema sanitario, almeno fino ad ora. I trattamenti garantiti all’interno dei centri di riabilitazione sono la psicomotricità e la logopedia.  

ll bambino con un disturbo dello spettro autistico quando è piccolo necessita di un intervento mirato a migliorare la relazione, o almeno a implementare una serie di abilità quali lo sguardo, l’imitazione, l’alternanza del turno. Attraverso giochi o canzoncine la terapista ricerca lo sguardo e stimola l’imitazione. Crea delle sequenze di gioco interessanti, delle routine, in cui il bambino viene gradualmente coinvolto.

Un altro obiettivo prevede di stimolare nel bambino la richiesta, l’intenzionalità comunicativa, provando a guidarlo a ripetere forme condivise di comunicazione come il gesto dell’indicare quando desidera qualcosa (pointing).

Alcuni bambini necessitano di un intervento più strutturato, fatto cioè di attività molto organizzate, all’interno di spazi delimitati, che hanno un inizio e una fine, guidate dall’operatore e non lasciate quindi alla spontaneità e alla libera iniziativa del bambino.

Ci sono invece bambini che fin dall’inizio si lasciano coinvolgere nel gioco facilmente anche se questo non è molto strutturato, ma per così dire più libero.

Poi ci sono il gioco simbolico, la coordinazione occhio mano, la motricità fine, l’attenzione, ecc.

Tutto questo la terapista della (neuro) psicomotricità lo sa e lo fa.
E conosce anche le tecniche comportamentali che applica a seconda del caso, per il tempo che ha a disposizione.

In ogni caso il suo intervento è incentrato sul bambino e sulla relazione, nel senso che non si limita a singole funzioni come la motricità o il tono muscolare.

Tra gli aspetti del metodo ABA che contribuiscono a renderlo efficace ci sono indubbiamente le tecniche d’insegnamento utilizzate che tengono conto delle  modalità di apprendimento della persona autistica, ma anche il tempo dedicato al trattamento. 

Ad oggi così come è organizzato il sistema, invece, la psicomotricità (e la logopedia) viene concessa per poche ore settimanali, per cui occorre prevedere altri momenti d’insegnamento a scuola e a casa...



   



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