Il bambino è autonomo, ma così non comunica

I bambini con disturbo dello spettro autistico, spesso, ci fanno capire cosa vogliono, ma non utilizzano modalità chiare per la richiesta, come un gesto o una parola. In altri casi, invece, non comunicano, non hanno ancora sviluppato l’intenzionalità comunicativa.
L’intenzionalità comunicativa consiste nell’essere “consapevole” degli effetti della comunicazione sulle persone, e ciò si vede dal fatto che il bambino ripete i suoi tentativi di comunicazione, quando la persona a cui è rivolto il messaggio non ha ascoltato o non ha agito per soddisfare la sua richiesta.
Le prime forme di richiesta sono sicuramente rivolte a soddisfare dei bisogni come quello della fame. Ed è a casa che effettivamente queste richieste possono essere effettuate più frequentemente.
Spesso capita che a casa il bambino con disturbo dello spettro autistico si prende da solo le cose che desidera o di cui ha bisogno. Si prende da solo l’acqua e le merendine quando ha fame e questo è un segno di autonomia.
Ma se vogliamo “costruire” l’intenzionalità comunicativa o vogliamo modellare nel bambino forme di comunicazione più chiare, è opportuno partire proprio dai suoi bisogni come il cibo, per cui il bambino è più motivato.
La comunicazione è una cosa semplice in sé, faccio qualcosa come un gesto o pronuncio una parola, come ho visto fare agli altri, per ottenere l’acqua o la merendina.

Se il bambino riuscisse a comunicare lo farebbe già spontaneamente.

Per questo motivo non dobbiamo rendergli la cosa difficile, se no “scappa”. Non dobbiamo “costringerlo” a ripetere bene, a guardarmi, a fare …

Deve poter ottenere facilmente quello che vuole. “Pretendiamo” da lui qualcosa che ha una valenza comunicativa, ma che può fare senza particolari sforzi.

Può aiutare non concedere la merendina intera, ma a pezzettini, così si può stare un tempo più lungo insieme. Se la merendina, invece, il bambino se la prende  e se la mangia da solo perdiamo un’occasione per stare insieme e per stimolare la comunicazione.
  
Non è semplice soprattutto all’inizio, perché questa situazione costringe genitore e bambino a confrontarsi con qualcosa come la comunicazione che non è stata acquisita dal bambino in modo spontaneo e che quindi richiede un insegnamento specifico.
È bello che il bambino sia autonomo, ma se vogliamo invece aiutarlo nella comunicazione è opportuno iniziare presto a “costruire” l’intenzionalità comunicativa, rinunciando a un po’ della sua autonomia.




A scuola non è cambiato niente.

Ci sono tante mamme che hanno capito cosa hanno i loro figli e come stanno le cose prima che glielio spieghi io. Mi ritrovo semplicemente a confermare ciò che loro hanno avuto modo già di constatare.
Spesso, la difficoltà di entrambi è come farlo capire a tutti gli altri, in particolare alle insegnanti. La mamma a scuola non viene ascoltata o viene considerata ansiosa e iperprotettiva. Oppure si deve giustificare per qualcosa di cui non è direttamente responsabile. Potremmo fare tanti esempi.   
Le insegnanti hanno tanti bambini e non possono dedicarsi a uno in particolare adattando pure la didattica. (questa è la loro principale motivazione)
Non lo so, ho qualche dubbio.
Perché hanno comunque il tempo di mettere un brutto voto per gli errori di ortografia di un bambino con disortografia, perché interrogano sulle tabelline il bambino con disacalculia, perché al bambino con difficoltà di attenzione gli dicono che non sta attento, perché se il bambino è depresso continuano a pensare ai compiti che non ha svolto, ecc…Lo so, ci sono tanti altri esempi positivi. Mi scuso per la generalizzazione.

E allora cosa fare.

C’è chi risolve cambiando scuola, avendo poi la conferma che non aveva ogni torto. C’è chi insiste a cercare il dialogo per spiegare come stanno le cose e quali sono le difficoltà del bambino.

Mi dispiace, ma a volte ci si confronta e si resta sulle proprie posizioni. Non si cambia realmente atteggiamento nei confronti del bambino, cosa che potrebbe a volte anche bastare…
   
    

   

La terapia non è l'unica alternativa

Alcuni bambini, in determinati periodi della loro vita, possono presentare lievi difficoltà nel comportamento o un lieve ritardo motorio o del linguaggio.

Per questi motivi la mamma può decidere di fare visitare il bambino.
Se qualche professionista esprime delle perplessità o addirittura assegna al bambino un’etichetta diagnostica, ecco che si mette in moto un percorso in cui la terapia sembra essere l’unica alternativa possibile.
Le insegnanti, il pediatra, o in ospedale, spingono perché il bambino faccia la terapia.

E una volta iniziata, la terapia, non è facile uscirne. “C’è sempre qualcosa” che giustifica ancora il trattamento riabilitativo.

La mamma si può trovare ad affrontare anche visioni diverse, approcci diversi: c’è chi sostiene che non serve iniziare o proseguire la terapia, perché il bambino è intelligente, perché le sue difficoltà verranno superate tranquillamente a casa o a scuola e chi invece ritiene di iniziare o di proseguire perché al test il bambino non ha soddisfatto pienamente determinati criteri.

Non è certamente facile per una mamma affrontare queste situazioni.

Riuscire a restare serena e sicura. 

C’è chi si sente rassicurata quando il bambino fa la terapia, anche se si rende conto che il bambino sta progredendo bene e a casa o a scuola fa già le esperienze necessarie per un sano sviluppo.

In ogni caso,
qualunque percorso viene intrapreso, è compito di noi riabilitatori informare la famiglia, con i tempi e i modi necessari, su come stanno le cose e su che cosa possiamo aspettarci, e indagare insieme le eventuali paure, preoccupazioni e convinzioni che rendono difficile l'eventuale distacco dalla terapia.
Indubbiamente per la Mamma conoscere il suo bambino, essere rassicurata sui progressi che fa e soprattutto constatarlo, è motivo di serenità.
Ma capisco che riuscire a mettere da parte il passato, le parole di perplessità o le diagnosi formulate, per godere pienamente del bambino e delle cose meravigliose che fa non sempre è facile.








Grazie Maestra

 Giovanni ha 6 anni e mezzo e frequenta la prima elementare. È un bambino intelligente e vivace. Ascolta le storie e risponde alle sollecitazioni dell’insegnante, ha molta fantasia, intuisce significati “nascosti”, spiega le conclusioni delle favole. Si vede che è sveglio, non c’è bisogno di alcun test o chissà quali prove per dimostrarlo.
A gennaio Giovanni legge le vocali, le altre lettere no, non vogliono proprio entrare nella sua testa.
Messo di fronte alla P, alla T, alla M, le copia benissimo, ma fa tanta fatica a riconoscerle, a leggerle. A casa la mamma, tra i tanti impegni, riesce comunque a dedicargli del tempo per i compiti.

L’insegnante è serena

si è accorta, aspetta il momento adatto per ascoltare e parlare con la mamma. Ha capito che Giovanni è intelligente, si ogni tanto si distrae, ma come tutti i suoi compagni. Allora decide di rallentare, perché c’è tempo. Decide di riprendere con le lettere dell’alfabeto, coinvolgendo tutti i bambini. 

Intuisce nuove opportunità.

Passano le settimane e Giovanni inizia a memorizzare, ma è lento nel rievocare il suono della P, della T, ecc.
Non ci sono confronti, non c’è nessun traguardo da raggiungere prima di altri. Siamo in prima elementare.

È una situazione naturale.

Non ci si accorge affatto che stanno aspettando Giovanni.

La storia può avere diversi finali, ma l’inizio fa la differenza. Che bello. Non ci sono etichette, non ci sono diagnosi, non ci sono confronti, giudizi.


  

"Fermare" il bambino con disturbo del linguaggio?

Ho conosciuto e conosco tanti bambini intelligenti che hanno avuto e hanno importanti difficoltà di linguaggio.

Ognuno ha una sua storia, bella e unica.

Tra questi, chi in terza sezione della scuola materna ha ancora un linguaggio con importanti difficoltà espressive o nella formulazioni di frasi corrette e complete, incontrerà sicuramente difficoltà con l’apprendimento della lettura e della scrittura. È una constatazione.
In questi casi è possibile fermare il bambino per un altro anno alla scuola materna, per arrivare più pronto alla scuola elementare? Cosa può succedere invece se non viene fermato? Viene “traumatizzato” dal fatto di non poter seguire i suoi attuali compagni?

Ci sono in gioco diverse variabili.

Secondo alcuni, più spesso gli insegnanti, il bambino deve andare avanti, perché è sveglio, è intelligente e copia bene. Secondo altri, in genere gli specialisti, è opportuno fermarlo, perché si troverà ad “inseguire” e spesso gli insegnanti non aspettano.

Quando il bambino viene esposto alle prime lettere, per leggerle deve accedere ai suoni della lingua che fatica ancora a pronunciare bene o che non erano percepiti e pronunciati correttamente in passato.

Deve stimolare un processo in cui ha difficoltà o è più lento.
  

E allora può accadere che al bambino vengono presentate troppe lettere in poco tempo e non riesce a memorizzarle, o per ogni lettera deve addirittura apprendere i 4 caratteri.

Non posso sapere cosa succederà, ma spesso, qualunque decisione viene presa, è soprattutto l’atteggiamento di  noi adulti che influenza il percorso scolastico.

Il bambino vive quello che vivono genitori e insegnanti.

Quando un bambino in prima elementare sbaglia le doppie non stiamo nemmeno a sottolinearlo e il bambino prosegue tranquillo il suo cammino scolastico, quando, invece, un bambino a natale non ricorda come si leggono le lettere presentate, ecco che può nascere il problema.

Ripeto, il problema nasce a secondo di come viene vissuta e interpretata dagli adulti la difficoltà del bambino.

Forse quando si è preparati (anche se non si può essere mai del tutto preparati) si affronta con più serenità la situazione.

Noi adulti, in fondo, quando dobbiamo imparare a fare qualcosa di nuovo e di difficile, ci  prendiamo il tempo necessario, e comunque ci stanchiamo, ci fermiamo, rimandiamo e poi riprendiamo. E ci arrabbiamo se qualcuno ci fa notare che siamo lenti e ci disperiamo se ancora siamo gli ultimi, se ancora non abbiamo imparato.

E allora, perché non concedere il tempo che serve anche ai bambini?  
   
  
   


   

"Lasciami la mia goffaggine"


Il bambino arriva ad acquisire determinate funzioni, come ad esempio la lettura e la scrittura attraverso un percorso che parte da molto lontano. In questo percorso le varie acquisizioni sono collegate fra di loro: pensiamo al percorso che porta alla scrittura o alla capacità di copiare una lettera, partendo dai primi scarabocchi.
Se ci limitiamo solo all’aspetto grafico, osservando i quaderni della scuola materna e quelli dei primi anni di scuola elementare, possiamo apprezzare l'evoluzione delle abilità grafiche fino alla scrittura in corsivo.

Ovviamente, nel caso della scrittura, non sono in gioco solo abilità grafiche, ma anche le abilità di motricità fine, visuo percettive, visuo costruttive, visuo spaziali.

Nei bambini con difficoltà dello sviluppo questo percorso non sempre è lineare, per cui può accadere che una prestazione come la scrittura sia acquisita, anche se le abilità che la precedono nel percorso evolutivo non sono del tutto adeguate, 

o meglio non rispecchiano i nostri parametri di “normalità”.

“Il bambino scrive discretamente in corsivo, ma ancora la rappresentazione grafica dello schema corporeo è immatura”, “Il bambino copia le lettere in corsivo, ma non riesce a fare il puzzle”.

Quando è acquisita una prestazione, come la scrittura o come la lettura, che sta alla fine di un percorso possiamo dare per acquisto tutto ciò che è precedente? Se un bambino non ha una bella grafia dobbiamo iniziare nuovamente tutto il percorso che ha portato alla scrittura? Se il bambino è goffo, e non ha una bella scrittura dobbiamo far fare tanta psicomotricità? O ancora dobbiamo necessariamente “togliergli” la sua goffaggine, così impara a scrivere bene? Non basta esercitarsi a scrivere meglio senza pretendere la precisione assoluta?

Cosa ne pensate? Sto semplificando?

Dico queste cose perché per alcuni bambini, che sono inseriti in un percorso di riabilitazione e di valutazioni, sembra che c’è sempre qualcosa da dover fare, da dover raggiungere.

Perché il bambino al test APCM ha avuto una caduta nell’area della motricità fine

Perché non è proprio bravo a fare i puzzle

Perché ancora non si sa allacciare le scarpe

Perché non sa acchiappare la palla.

Ma lo stesso bambino ora scrive e legge ciò che comprende. 

E' avanti

E’ bravo.  Diglielo che è bravo, non solo con le parole. Diglielo che non c’è bisogno di fare ancora terapia e che c'è la maestra che lo aiuta e che e ci sono mamma e papà.



Non esiste il metodo per tutto

I bambini che intraprendono un percorso riabilitativo vengono in genere sottoposti a una serie di incontri, visite e osservazioni, al fine di programmare il tipo di intervento. L’intervento riabilitativo è un “vestito fatto su misura” che si va modificando nel tempo in base alle risposte che da il bambino. L’intervento dovrebbe tenere conto prima di tutto del bambino, delle sue esigenze e desideri, dell’età e del percorso già fatto, delle risorse disponibili nel contesto e nel territorio in cui il bambino vive e naturalmente della sua famiglia.

Sono, quindi, diversi gli elementi che influenzano le nostre scelte. Non ci può essere niente di prestabilito. Si cerca la soluzione più adatta per ciascun caso.

Nel mondo della riabilitazione esistono indubbiamente diverse visioni, diverse teorie, diversi modi di spiegare i disturbi dello sviluppo e quindi diversi approcci e diverse metodologie di intervento. Alcuni sono ritenuti efficaci, altri no.

Per un genitore almeno in una fase iniziale può essere difficile cogliere le differenze che esistono tra i vari approcci e quindi riuscire a districarsi. Semplicemente perché non è un tecnico, perché ha un’esperienza limitata, perché è coinvolto.

Chi si occupa di riabilitazione sa benissimo che non esiste il metodo che funziona per tutto, né che ogni cosa deve essere affrontata facendo riferimento a quel metodo.
È evidente, il mio è un punto di vista, ma è proprio questo il rischio che in alcune situazioni ho intravisto: il bambino “diventa” una scheda compilata, un programma riabilitativo, una serie di obiettivi da raggiungere, entro tempi determinati.

Perché così dice il metodo.

Come se si avesse una visione parziale del problema, e non si tenesse conto così di tutte le variabili in gioco che ho elencato.

A volte non è il metodo sbagliato in se, ma eventualmente la sua applicazione rigida.
  
Non è facile districarsi in questo mondo e capisco che non sono granché di aiuto, la mia è solo un’indicazione. 
Sicuramente l’esperienza, la conoscenza, la serenità e l’affidarsi e prima di tutto il riuscire ad ascoltare il vostro bambino vi permetteranno di fare il percorso più adatto.

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...