Per
comunicazione si intende ciò che una persona fa intenzionalmente per
trasmettere un messaggio, indipendentemente dalle modalità (gestuale, verbale,
scritto, visivo), ad uno o più riceventi. Il codice del messaggio deve essere
per entrambe le parti un codice condiviso.
Per comunicare, il bambino con autismo deve cogliere il potere della comunicazione, ciò può avvenire organizzando le condizioni che permettono al bambino di trovare “utile” la comunicazione, così potrà farci vedere di cosa ha bisogno, o richiamare la nostra attenzione su quegli eventi o situazioni che trova interessanti.
Per comunicare, il bambino con autismo deve cogliere il potere della comunicazione, ciò può avvenire organizzando le condizioni che permettono al bambino di trovare “utile” la comunicazione, così potrà farci vedere di cosa ha bisogno, o richiamare la nostra attenzione su quegli eventi o situazioni che trova interessanti.
Prerequisiti
della comunicazione sono: l’intersoggettività che presuppone la capacità di
riconoscere l’esistenza dell’altro e di se stessi come soggetti di interazione,
la capacità di riconoscere l’esistenza delle cose e quindi di etichettarle sia
in senso recettivo (indicare, dare, mostrare qualcosa su richiesta), che in
senso espressivo (denominare).
L’etichettamento è di grande importanza per l’apprendimento della comunicazione, ma non deve essere un’attività fine a se stessa, bensì deve avere un valore ecologico, cioè essere funzionale nel proprio contesto di vita.
L’etichettamento è di grande importanza per l’apprendimento della comunicazione, ma non deve essere un’attività fine a se stessa, bensì deve avere un valore ecologico, cioè essere funzionale nel proprio contesto di vita.
L’apprendimento
di abilità comunicative non può avvenire al di fuori del contesto sociale. Un
obiettivo comunicativo può essere considerato raggiunto quando la persona con
autismo effettua un’attività di comunicazione all’interno di un contesto di
vita: a casa, a scuola, in palestra, al bar, ecc. Tale apprendimento,
considerate le difficoltà a generalizzare dovrebbe avvenire soprattutto in
situazioni reali.
Theo
Peeters ipotizza che nell’autismo “La comunicazione è quello che la
comunicazione fa” ovvero che la comunicazione ha senso solo in quanto incide
concretamente su ciò che avviene immediatamente dopo l’atto comunicativo.
Infatti molti bambini con autismo raggiungono la possibilità di utilizzare il
gesto indicativo per richiedere qualcosa, ma è molto raro trovare dei bambini
che indichino per mostrare o condividere un interesse.
L’intervento
sulla comunicazione nell’autismo deve tenere conto delle caratteristiche che
definiscono la comunicazione stessa, come l’intenzionalità, la condivisione di
un codice, il valore di scambio dell’interazione comunicativa.
Le
persone con autismo fanno una grande fatica per comunicare ed è per questo che dobbiamo
lavorare affinché la persona abbia veramente un buon motivo e un buon modo per
comunicare. La prima cosa da fare consiste nell’indurre una intenzionalità
comunicativa. Con il bambino piccolo questo significa creare delle situazioni
in cui l’adulto si lascia “attivare” da un qualunque comportamento del bambino
interpretandolo come richiestivo, per fare in modo che il bambino colga di
avere la possibilità, appunto, di “attivare” l’interlocutore.
La
comunicazione facilitata (CF) è una tecnica che ha l’obiettivo di
favorire la comunicazione in soggetti affetti da autismo che non hanno
sviluppato un linguaggio verbale. Nella
comunicazione facilitata si ipotizza che alla base delle difficoltà
dell'autismo a comunicare vi sia anche una difficoltà ad organizzare il
comportamento motorio (Disprassia). Semplificando possiamo dire che il
facilitatore stabilizzando l'arto superiore facilita un movimento che è
finalizzato a dare una risposta ad una domanda. Tale risposta si ottiene
indicando o toccando un’immagine, o un cartoncino dove è scritta una parola, o
ancora scrivendo al cmputer.
E'
ovvio che le difficoltà comunicative non possono essere ricondotte ad una
difficoltà motoria, ma sappiamo che il problema sta a monte, cioè riconoscere
l'altro come partner di uno scambio e riuscire a cogliere innanzitutto le sue
intenzioni a prescindere dal contenuto della domanda formulata.
Il
facilitatore, almeno nelle fasi iniziali, si pone alle spalle del soggetto,
cercando di contenerlo, e pone delle domande che vengono presentate in forme e
complessità diverse a seconda del potenziale cognitivo del bambino.
La
posizione assunta dal facilitatore entra in contrasto con ciò che abbiamo
considerato comunicazione, intesa cioè nell'ottica dell'interazione e dello
scambio.
L’iniziativa
a comunicare, sia verbale che non verbale, è compromessa nelle persone con
autismo.
La
situazione creata, così come viene impostato il trattamento nella CF, non
sembra tale da favorire un'iniziativa da parte del bambino mirata alla
comunicazione, ma solo delle risposte a delle domande che vengono poste dal
facilitatore, non viene creata una situazione di bisogno, o che suscita la
motivazione del soggetto, tale da stimolare una intenzionalità comunicativa.
In
alcuni casi la produzione attraverso la comunicazione facilitata dei soggetti
autistici è molto elaborata sia sul piano cognitivo che emotivo. Queste persone
sono in grado di scrivere vere e proprie poesie o scritti in cui utilizzano dei
termini e delle espressioni che non si riscontrano nel loro linguaggio.
E'
importante ribadire che in questi casi siamo in presenza di soggetti autistici
ad alto funzionamento cognitivo ed è molto difficile in alcuni casi mettere in
relazione tali produzioni con il reale
vissuto e con l'esperienze vissute di chi li produce. L’intensità delle
emozioni o delle opinioni espresse non sembra trovare riscontro nel loro modo
di essere e di operare.
A
volte quanto scritto non risulta immediatamente chiaro per chi legge, per cui
occorre molta cautela nell’interpretare certi pensieri. Anche nel caso in cui
si sollecita una risposta da parte del facilitatore attraverso la presentazione
di una serie di alternative scritte nel caso in cui queste risposte riguardano
vissuti, desideri, credenze, ecc, si incorre in nuove situazioni rischiose dal
momento che comunque le risposte sono
suggerite (non si tratta di vere proprie domande a risposta aperta) e per
quante alternative possono essere presentate, si corre il rischio di
indirizzare o suggerire una risposta che non rappresenta il vero pensiero di
chi sceglie una delle diverse alternative.
In presenza di produzioni in forma scritta, più o
meno elaborate, occorre differenziare tra gli ambiti comunicativi e gli ambiti
“espressivi”, che nel contesto riabilitativo sono molto spesso confusi.
“Espressione” riguarda tutto ciò che fornisce
informazioni, più o meno direttamente e consapevolmente, in merito a qualcosa.
Si ritiene che tutto ciò che una persona fa può essere considerato
“espressivo”, ad esempio l’abito “parla” di chi lo indossa, un disegno o la
grafia possono essere considerati espressivi della persona. L’espressione non
deve per forza essere consapevole, intenzionale, indirizzata, o seguire un
codice. L’arte è sicuramente un’attività espressiva, in cui l’artista può
esprimere determinati contenuti che richiedono però un’attività interpretativa
da parte di chi fruisce dell’opera. Questa operazione “attiva” da parte del
ricevente è presente anche nel concetto di comunicazione, ma mostra delle
caratteristiche differenti perché esiste un codice condiviso ed una
intenzionalità esplicita. Se “la comunicazione è ciò che una persona fa
intenzionalmente per trasmettere un messaggio, con un emittente e uno o più
riceventi, un contenuto, una o più funzioni, uno o più canali, un codice
condiviso” l’aspetto interpretativo fa parte del “gioco comunicativo” in misura
marginale e non del tutto intenzionale. Insomma: una persona che si reca dal
fornaio per comprare il pane, ha un obiettivo chiaro, sa che deve utilizzare
determinate frasi, e si aspetta una determinata risposta. Se andiamo ad una
mostra o ad un concerto, invece, o se dipingiamo noi stessi o scriviamo un
romanzo, o ancora se un soggetto autistico scrive una poesia, la risposta che
attendiamo dal fruitore della comunicazione non è univoca come quella attesa
dal fornaio, e riflette gli aspetti espressivi, appunto, non direttamente
comunicativi, dell’emittente.
Anche per questo motivo non sempre siamo in presenza
di una vera e propria comunicazione.
Con
alcuni soggetti, in particolare con quelli con un basso funzionamento
cognitivo, il training svolto nei mesi e negli anni conduce secondo il mio
punto di vista ad un condizionamento: il bambino “comunica” solo in presenza
del suo facilitatore e i tentativi di un altro operatore di utilizzare le
stesse modalità per favorire la comunicazione sortiscono o il rifiuto o una
risposta motoria condizionata senza alcuna valenza comunicativa.
La
risposta motoria consiste nel toccare uno tra tre cartoncini in cui sono
presentate le alternative di risposta ad una domanda. Sottolineo che ai fini
della Comunicazione ha poco valore dare una risposta corretta se
contemporaneamente non si mettono in atto quei comportamenti che abbiamo
chiamato intersoggettività. Molti bambini indicano o toccano (non mostrano) con
la facilitazione dell'operatore un oggetto o un'immagine su richiesta scritta o
verbale dando comunque l'impressione di non cogliere affatto le intenzioni del
facilitatore che richiede uno scambio. Inoltre il toccare il cartoncino a prescindere dal tipo
di risposta ha poco valore se sulla base di quella risposta non ne scaturisce
un cambiamento del comportamento coerente con la risposta. Voglio ribadire che
lo scambio comunicativo deve essere innanzitutto funzionale e questo può
avvenire o eventualmente essere appreso se viene contestualizzato e favorito
all’interno del contesto naturale. Bisogna sottolineare ancora che considerate
le difficoltà di generalizzazione delle persone con autismo se l’apprendimento
deve essere utilizzato in un contesto reale, anche l’insegnamento deve avvenire
in gran parte in situazioni reali, per cui l’intervento deve prevedere il
coinvolgimento di molte persone che vivono con la persona con autismo ed essere
esteso a tutti i diversi ambienti e a tutte le diverse situazione di vita
reale. Con l’utilizzo di questa tecnica è alto il rischio che la terapia
diventi un rapporto “privato” tra il facilitatore e la persona con autismo.
Anche
con le persone ad alto funzionamento che producono attraverso l’utilizzo del
computer si può determinare dopo mesi di training un condizionamento che
consiste nel fatto di riuscire a “comunicare” solo in presenza del
facilitatore. In questi casi è importante precisare che la produzione in forma scritta rappresenta
comunque un canale che permette di accedere al pensiero della persona che
scrive, tuttavia non si può escludere in assoluto che un training diverso
avrebbe potuto dare risultati diversi, cioè un maggiore utilizzo del linguaggio
orale ad esempio in situazioni e contesti naturali e magari con una “maggiore”
intenzionalità.
Spostando
l'attenzione solo sulla prestazione cognitiva che si richiede al soggetto con
la facilitazione, cioè il riuscire a dare una risposta più o meno corretta ad
una domanda, occorre innanzitutto precisare che le domande formulate devono
tenere conto sia del livello cognitivo del soggetto autistico sia del grado di
conoscenze possedute.
Non
può essere ipotizzato un apprendimento del bambino comparabile a quello di un
coetaneo solo sulla base del fatto che avendo frequentato la scuola è stato
esposto agli stessi insegnamenti formali dei suoi coetanei.
L'apprendimento
della lettura e della scrittura, ad esempio, presuppone tutta una serie di
passaggi che vanno documentati e che non possono essere dati come acquisiti
solo sulla base della “capacità” di indicare una parola scritta tra alcune
alternative.
Inoltre per processare le informazioni utilizziamo
delle basi biologiche e neurofisiologiche comuni sia se consideriamo il
linguaggio orale che quello scritto, entrambi sottostanno a delle regole comuni
che fanno riferimento alla sintassi, alle conoscenze in generale, per cui non è
possibile riuscire a comprendere e a
produrre in forma scritta certi elaborati nel
caso in cui non sia mai stato presente un linguaggio orale. Non mi
convincono nemmeno le ragioni di chi sostiene che solo il facilitatore, avendo
stabilito con il ragazzo un buon legame emotivo, può elicitare una risposta
corretta. Se ci fermiamo a considerare una semplice prestazione cognitiva,
questa non può essere così fortemente condizionata dalle modalità con cui ci si
relaziona o con cui si facilita, o quanto meno non è possibile ottenere così
forti discrepanze di valutazione tra chi valuta attraverso la comunicazione
facilitata e chi valuta attraverso modalità standard.
Un'altra
critica all'utilizzo di tale tecnica deriva dall'incapacità di dare una
risposta corretta da parte del bambino autistico nel caso in cui il facilitatore
non conosce la domanda. Per tutti questi motivi ancora di più si nutre il forte
dubbio che le risposte siano guidate dal facilitatore in modo più o meno
consapevole. Tale guida nella risposta, contrariamente a quanto sostiene chi
promuove questa tecnica, avviene a mio modo di vedere anche nel caso di
facilitazione alla spalla o alla testa, modulando le pressioni della mano a
seconda della direzione del movimento del braccio.
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