Il bambino non è la sua diagnosi

La Mamma decide di fare visitare il bambino dal Neuropsichiatra Infantile, consigliata prima dal pediatra e poi dalle maestre. Dopo alcuni incontri viene formulata una diagnosi.

A che serve la diagnosi?. È sempre necessaria averla?

Alcune diagnosi sono indubbiamente difficili da accettare, da sopportare.

La diagnosi, in qualche modo, in alcuni casi, indirizza verso determinati percorsi: il bambino ora deve fare questo tipo di terapie e di accertamenti. Strade già percorse da altri.

La diagnosi permette uno scambio veloce di informazioni tra gli operatori che interagiscono con il bambino e richiama programmi precedentemente svolti per altri bambini con la stessa diagnosi: il bambino ha il disturbo …, quindi deve fare questo tipo di terapia…

Indubbiamente un nome (la diagnosi) dato ad un insieme di sintomi o difficoltà, non descrive affatto il bambino, la sua storia o il comportamento che ha nei vari contesti. Né descrive le sue relazioni, che influenzano il bambino e l’espressività del suo disturbo.

A volte c’è il rischio di ricondurre ogni difficoltà e ogni comportamento osservato alla diagnosi formulata: “il bambino ha le stereotipie perché è autistico” piuttosto che “il bambino ha le stereotipie perché ancora non gli abbiamo insegnato un altro modo per chiedere l’acqua”.

A volte ci proteggiamo dietro ad una supposta diagnosi per spiegare un comportamento del bambino, che tuttavia non dipende da lui: “il bambino non collabora, perché ha un disturbo dell’attenzione” piuttosto che “il bambino non collabora perché non sono ancora riuscito a motivarlo”

A  volte cerchiamo una diagnosi e non interveniamo se prima non ce l’abbiamo, quando in realtà il bambino ha comunque delle difficoltà che orientano di per se verso un aiuto mirato, una guida.

A volte vogliamo nascondere la diagnosi per evitare che gli altri si fanno un idea sbagliata del bambino.

A volte dimentichiamo la diagnosi e la rimuoviamo.

A volte ci dimentichiamo che due bambini sono diversi anche se hanno la stessa diagnosi: “quel bambino ha fatto questa terapia e allora anche il mio bambino deve fare la stessa cosa, lo stesso metodo, lo stesso protocollo”.

A volte facciamo di tutto con il bambino per mostrare che non c’è quella diagnosi.

In tanti modi la diagnosi ci può condizionare e ci condiziona… Non dico di non tenerne conto. Dico solamente che il bambino non è la sua diagnosi, il bambino è quello che è, è quello che fa.
A prescindere dalla diagnosi.



    

4 commenti:

  1. Post molto convincente, grazie. Vorrei porle una domanda per me importante, e suppongo anche per lei se scrive che «dobbiamo sempre avere come riferimento per affrontare le varie problematiche il metodo scientifico. Questo significa affidarsi alle valutazioni e agli interventi che hanno avuto più benefici rispetto ad altri, che non risultano invece validati dal metodo scientifico.»

    Esistono lavori scientifici, cioè con gruppo di controllo e tutti i crismi, che validino le linee guida della legge 170 /2010 sui DSA? Nelle linee guida si consiglia ad esempio la dispensa da determinate attività, o l'utilizzo di strumenti compensativi, o l'apprendimento dello stampatello maiuscolo al posto del corsivo. Personalmente non ho trovato nessun articolo scientifico a supporto di tali suggerimenti. Forse non li conosco. Me li può segnalare o darmi il suo parere?

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    1. Mentre ne ho trovati parecchi che dicono cose molto diverse da ciò che suggeriscono le linee guida. Sul corsivo e sulla scrittura manuale ad esempio ho trovato questi.

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    2. Grazie per la domanda e per le stimolazioni.Non riesco a citare un articolo preciso. A grandi linee il trattamento dei bambini che riceveranno una diagnosi di DSA verte sul linguaggio alla suola materna, si concentra sulla lettura e scrittura nei primi anni della scuola elementare e poi dovrebbero prevalere le misure didattiche che compensano le difficoltà. Quando il bambino è piccolo è chiaro che si cerca di migliorare i pre requisiti dell'apprendimento e della scrittura. Per la scuola un criterio importante è quello di rendere più semplice al bambino l'accesso agli apprendimenti e alo studio. Viene suggerito di continuare a utilizzare lo stampatello maiuscolo nel momento in cui il bambino effettivamente fa molta fatica a padroneggiare il corsivo.

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    3. La sua risposta, molto cortese e piena di buon senso che condivido, è però sconfortante. È come minimo incredibile che si facciano corsi di formazione per insegnanti in cui si suggeriscono modalità e scelte didattiche non validate. Come insegnante è diversi anni che approfondisci l'argomento, e più approfondisci più trovo che diverse indicazioni delle linee guida sono contrarie a quanto si è rilevato in esperimenti controllati, almeno in quelli che ho trovato in letteratura. L'aspetto peggiore è poi nella pratica didattica di tutti i giorni, dove nei fatti, al di là dei buoni propositi dichiarati della legge 170, essa viene utilizzata per scaricarsi la coscienza e non mettere in discussione cattive pratiche didattiche. Se il bambino è in difficoltà nessuno valuta la sua storia scolastica davvero in profondità, ma nella maggior parte dei casi bastano pochi test di performance sotto le due ds per decretare che la colpa non è della scuola, ma del cosiddetto disturbo. Non voglio generalizzare, ma quante volte ad esempio ho letto diagnosi nelle quali si prescrive l'utilizzo della calcolatrice a ragazzi con ottimi risultati in matematica, facendo un becero copia incolla delle linee guida... ?!

      Grazie ancora della risposta. Se trova qualcosa me lo segnali che lo metto volentieri a disposizione sul mio blog di appunti.

      Da parte mia le segnalo questo interessante libro (peer rewied).

      The dyslexia debate

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