Non esiste il metodo scientifico

In riabilitazione ci troviamo ad applicare delle procedure, delle tecniche, un metodo, che adattiamo al bambino, agli obiettivi del trattamento, al contesto.
A volte sentiamo dire e leggiamo che un metodo è più valido di un altro perché ne è stata dimostrata scientificamente l'efficacia.
L'esperienza clinica ci permette di verificare effettivamente l'efficacia di una procedura e di decidere se e come continuare.
Tuttavia discuto la presunta scientificità di un metodo perché nell'analizzare lo studio scientifico non vengono considerate tante variabili: ad esempio la presenza stessa della persona, il volto, la voce, lo sguardo, la postura, il tocco della mano, i movimenti, il momento della giornata, l'umore, le emozioni, il contesto.

Sono variabili che non possono essere misurate come in un metodo scientifico, non possono essere eventualmente replicate sempre allo stesso modo, né possono essere semplicemente descritte come si fa con le procedure, né possiamo pensare che non esistano, né è possibile dire che non influiscono.

Non possono essere misurate, né esistono strumenti di misurazione obiettivi.

Non possono essere replicate perché siamo unici così come è unica la relazione tra due persone, unica e diversa in ogni momento.

Queste variabili non possono essere descritte semplicemente perché le parole non arrivano, neanche lontanamente, a descrivere e far vivere un'esperienza. Le parole e le rispettive esperienze che indicano sono due cose diverse: con la parola pane non mi sazio. La parola pane può indicare un'esperienza, ma chiaramente non coincide con quell'esperienza.

Sono variabili presenti in una relazione perché non siamo dei robot.

Sono variabili che dire che influenzano il momento di un'incontro è dire poco perché di fatto costituiscono quell'esperienza che chiamiamo relazione.

Relazione che è altro da me e dalla persona che incontro, ma anche se è altro da me, mi identifica. 
Qualunque identità voglia considerare di me e del bambino, questa si realizza nella relazione. Non esiste una caratteristica del mio comportamento, della mia identità che sia assoluta e non nata, creata, sempre, in una relazione, nella Relazione.




La bellezza di un'attesa

Il bambino piccolo entra nella stanza, per lui è una situazione nuova, non mi conosce, si accorge della mia presenza. Gli vengono fatte delle richieste, non è ancora completamente a suo agio e resta in silenzio e non si muove. E' difficile dare un nome al suo stato d'animo, intuisco che occorre aspettare. 

E' un'attesa silenziosa, il mio corpo e il mio sguardo sono rilassati, non cerco niente. Dopo poco tempo il bambino inizia a giocare, a interagire e a rispondere alle richieste.

Ho visto il bambino in un altro momento, in un altro contesto e con le stesse esitazioni. In questo caso ho sentito un'altra attesa, più rumorosa, fatta di esortazioni, premi e direttive ripetute, finalizzate a ottenere determinate risposte, subito.

Sono solo due momenti della vita del bambino, che tuttavia, in molti casi, presuppongono visioni diverse che si concretizzano in approcci diversi.


Non sono in grado di stabilire gli effetti a lungo termine di un tipo di approccio rispetto all'altro, ma intravedo, se non altro, il rischio di perdersi la bellezza di un momento, in cui c'è silenzio e i corpi dialogano e i volti parlano. 

C'è solo la musica

Quando il bambino è nato c’è stata una sofferenza che ha “rotto” un equilibrio.

Ora c’è pianto, disagio, rabbia, cure. Non c’è ancora il bambino che agisce nel mondo in modo intenzionale. 

Ci sono tante sensazioni, ma non come le conosciamo noi fatte di voci, luci, rumori e parole. Ci sono tante sensazioni non distinte, che non hanno un nome.

Le cose non hanno ancora un nome e per questo esistono solo come sensazioni. Sensazioni che accadono in un flusso continuo. Alcune si associano a ciò che noi possiamo chiamare disagio, e quindi compare il pianto o una rigidità.  

Comunque, “ora il bambino deve fare tanti esercizi”. Non salvo niente in questa frase, niente

Il bambino, come lo pensiamo noi, non c’è. Lui è un flusso di sensazioni ed emozioni che non hanno nome.  

Nel flusso delle emozioni e delle sensazioni ce ne sono alcune che si accordano con il bambino, che determinano qualcosa che chiamiamo quiete, benessere. Si accordano è il verbo giusto. Perché è come la musica. C’è una sensazione che nasce che è in sintonia, cioè ha lo stesso ritmo, intonazione, frequenza e intensità rispetto a ciò che nasce dentro il bambino. 
E’ lì che compare l’azione che vuole continuare ad ascoltare la musica  

Non ci sono gli esercizi da fare. Ora il mondo intero, fatto di voci, braccia, musiche, cibo, coccole, si accorda con il bambino.  

C’è solo l’accordo da ricercare, per ritrovare la musica. E ogni melodia è diversa, non posso ottenerla usando le stesse note di giorno o di sera, non posso usare lo stesso strumento per tutti.

E se c’è la musica, il resto verrà da se, occorre solo aspettare.  


Per i bambini autistici intervento strutturato? O no

Ci sono bambini con un disturbo dello spettro autistico che, indipendentemente dal tipo di intervento a cui vengono sottoposti, permangono in uno stato di “chiusura relazionale” maggiore rispetto ad altri che hanno lo stesso disturbo.
Lo vediamo dallo sguardo, dalla partecipazione, dall'iniziativa, dalla spontaneità, dalla rigidità dei comportamenti.
In altri bambini è possibile invece osservare “maggiori aperture”, cioè sono più presenti alla relazione.

Per questi bambini constatiamo che l'apprendimento non richiede un intervento rigido e strutturato, ma avviene quasi spontaneamente in situazioni naturali o comunque senza l'applicazione di tecniche precise e “rigide”.

Per i bambini che rimangono più “chiusi” constatiamo che è possibile ottenere da loro delle risposte, delle prestazioni attraverso delle procedure precise e attraverso dei rinforzi (“premi”), cioè i bambini rispondono “solo” a determinati operatori e solo se le richieste vengono poste in un modo preciso e conosciuto dal bambino.

In questi casi ci si domanda quanto occorra insistere su alcune competenze e su alcune prestazioni “cognitive” (rispetto alle abilità di relazione), se di fatto queste emergono principalmente nel contesto terapeutico e se non occorra invece privilegiare l'interazione, il gioco e l'iniziativa spontanea.

Per dirla in maniera cruda: “E' utile che il bambino impari a contare fino a 100 alla scuola dell'infanzia se poi, ad esempio, ha poche occasioni e ridotte abilità per giocare e divertirsi con gli altri, se non prende iniziativa per chiedere i suoi giochi e soddisfare i suoi bisogni?”

Non è opportuno in questi casi ridurre gli apprendimenti strutturati a favore di interventi e occasioni di apprendimento che siano il più “naturali” possibili? Che privilegino maggiormente la relazione?

Tante possono essere le domande e le osservazioni, tutte legittime. 

E spesso non è possibile avere delle risposte certe perché non possiamo avere per il bambino la controprova di quello che affermo, né è possibile, per fare dei confronti tra diversi approcci, paragonare i bambini, perché nessuno è uguale ad un altro.



I parametri per assegnare l'insegnante di sostegno

Ai fini dell’assegnazione dell’insegnante di sostegno per i bambini che frequentano la scuola elementare un elemento che viene preso in considerazione il più delle volte è sicuramente il quoziente intellettivo (Q.I.). Si tratta di un numero che si ottiene dalla somministrazione dei test intellettivi, in base alle risposte che fornisce il bambino. Se il quoziente intellettivo è inferiore a 70 siamo nell’ambito di quella che viene definita disabilità intellettiva per cui si ha diritto all'insegnante di sostegno. Se il Q.I., invece è superiore a 70, qualora siano presenti difficoltà di apprendimento i bambini possono ricevere l’etichette di BES o di DSA, che non sono in genere accompagnate dalla certificazione per il sostegno.
I test vanno naturalmente interpretati, nel senso che il clinico che li somministra può effettivamente capire se i punteggi e le prestazioni osservate durante il test sono espressione verosimile del livello intellettivo del bambino. Ad esempio il bambino può essere stanco e allora il test può dare punteggi inferiori alle reali capacità. Oppure se ci basiamo solo sulle prove verbali per un bambino che ha un disturbo del linguaggio possiamo ancora avere punteggi di Q.I. più bassi rispetto alle reali potenzialità del bambino. In questi casi il clinico decide di ripetere i test o di somministrane altri più confacenti alle caratteristiche del bambino. Per avere un conoscenza più completa del bambino non ci basiamo solo sui test, ma anche sulle osservazioni fatte, sulle notizie raccolte e sulle capacità di apprendimento evidenziate nel tempo.
Detto questo è chiaro che basarci solo su un numero ai fini dell’assegnazione dell’insegnante di sostegno e del relativo  numero di ore è veramente riduttivo e non rende “giustizia” all’interesse del bambino.
Ci possono essere anche altri parametri che possiamo considerare, ma in ogni caso, se abbiamo a cuore e a mente ciò che è in gioco, i nostri riferimenti devono essere il bambino, la famiglia, le insegnanti, i terapisti, e non solo le carte e i numeri.




L'etichetta che ci condiziona

Ho conosciuto un ragazzo di 13 anni, di nome F., che ha un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento. Questa diagnosi è stampata su un foglio, associata a una serie di esami, test e descrizioni del comportamento. In virtù di tale etichetta ha iniziato a fare quelle terapie che vengono in genere consigliate in questi casi.

Siccome lui ha questa diagnosi tutto spinge verso quella strada.

Gli ho chiesto cosa volesse fare e lui mi ha risposto che non voleva frequentare più il centro di riabilitazione, voleva disegnare, giocare e basta.

No, questo non è proprio possibile, c'è una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, c'è sempre qualcuno pronto a indignarsi alla minima difficoltà di F., se lui non è seguito dal centro di riabilitazione. Mica può frequentare la piscina, gli scout e i campi da calcetto. Lui deve fare la riabilitazione. C'è una diagnosi.

Ma quando parlo con lui, la diagnosi io non la vedo proprio.

Ha espresso dei desideri, non può decidere come fanno gli altri ragazzi della sua età. Si, ma c'è il rischio che non venga capito, che venga preso in giro, che si metta nei guai.


Ah, giusto, deve frequentare ancora il Centro di riabilitazione, ma chi lui? o qualcun altro?

Il bambino è

Quando valutiamo il bambino descriviamo delle funzioni, dei comportamenti che non sono il bambino, che non coincidono con il bambino. 
Il bambino è...al di là delle sue funzioni e dei suoi comportamenti. Funzioni e comportamenti che cambiano, passano, ma il bambino resta, il bambino sempre è, nel senso che la sua natura è immutata.
Riusciamo a “vederlo”...il bambino? 

Dietro, al di là del suo linguaggio, della sua motricità, della sua aggressività, della sua attenzione o della sua intelligenza.

Vogliamo che tali funzioni e comportamenti cambino, migliorino, ma le nostre parole e i nostri messaggi sembrano concentrarsi implicitamente sul bambino, come se volessimo e pretendessimo che cambi e migliori lui, secondo le nostre aspettative e i nostri schemi mentali.

E poi...non ci rendiamo conto che qualunque comportamento osservato è, in realtà, il risultato di un'interazione, di un'incontro, di una relazione con qualcuno.

E nell'incontro non c'è mai il comportamento del bambino separato da quello dell'altra persona.

Per cui dovremmo eventualmente "giudicare" la relazione e non il comportamento del singolo bambino e quindi noi siamo altrettanto “responsabili” di quanto osserviamo.

I comportamenti dei bambini cambiano a seconda del tipo di interazioni che affrontano e "cambiano", "migliorano", "peggiorano" a secondo del nostro metro di giudizio e dei nostri schemi di riferimento: un comportamento può essere definito un capriccio o un “comportamento problema” o un atto di aggressività; un pianto può essere espressione di “ansia da separazione” o l'espressione di un “bimbo viziato” o semplicemente un pianto. 

E allora come si fa ad essere obiettivi...?









Si può concedere ad una Madre...

Si può concedere ad una madre di essere così come è, e non essere diversa, e non essere come vogliamo noi, come pretendiamo noi, come pensiamo noi sia giusto. 

Si può concedere ad una madre del tempo, tutto il tempo, per diventare più consapevole. 

Si può concedere ad una madre di fare quelli che noi consideriamo errori, così come facciamo noi o come abbiamo fatto noi. 

Si può considerare che non tutto dipende dalla madre, ma anche dal contesto, dalla famiglia e dalle relazioni. 

Si può considerare che ogni madre ha una storia che orienta la vita, che la condiziona in qualche modo, che plasma la visione che ha della realtà. 

Si può concedere ad una madre di starsene da sola perché semplicemente è stanca, perché ancora non è pronta, senza per questo doverla giudicare.

Si può continuare ad ascoltare una madre, e starle accanto, anche se non ci cerca o non ci dice grazie.





   

Non perdiamoci il bambino

Il bambino che necessita di fare la riabilitazione in genere viene sottoposto a vari test e valutazioni.

Dalle valutazioni emerge un profilo fatto di numeri, descrizioni, grafici e tabelle.

Dopo le valutazioni si pongono gli obiettivi del trattamento. Nel tempo si fanno le verifiche e si pensano nuovi obiettivi.

Niente di nuovo.

In maniera più o meno coordinata e coerente gli sforzi vengono canalizzati al raggiungimento degli obiettivi.

Gli obiettivi a volte sono misurabili, verificabili, a volte sono espressi in modo generico.

Gli obiettivi pensati sono in genere incentrati sul bambino, sulle acquisizioni che deve ottenere, e poco sul contesto e sulle relazioni, dove ovviamente non c'è solo il bambino.

Cosa può succedere?

Guardiamo gli obiettivi, i comportamenti, i sintomi, i numeri, le attività, il setting, e ci perdiamo il bambino.

E' un attimo.

Non sentiamo e non vediamo il bambino dietro quel comportamento che osserviamo. Non sentiamo il desiderio che c'è dietro a quel dato comportamento perché guardiamo solo il comportamento.

Ci concentriamo sugli obiettivi perché devono essere raggiunti entro un dato periodo, come se dovessimo spuntare delle caselle vuote, e ci perdiamo il bambino.

Ci concentriamo sugli obiettivi da raggiungere come se dovessimo dimostrare qualcosa, e ci perdiamo il bambino.

Pensiamo che è necessario raggiungere quegli obiettivi perché il bambino possa cambiare e allora facciamo fare tanta terapia, e ci perdiamo il bambino.

Sentire il bambino è qualcosa che non si può descrivere con le parole, se ne può solo fare esperienza. L'esperienza non è fatta di parole, né di obiettivi. Quando siamo veramente liberi dagli obiettivi riusciamo a godere dell'esperienza del sentire il bambino.

 E questa è la cosa più bella e più importante.

Uso dei segni nell'autismo, alcune domande

Uno degli obiettivi del trattamento dei bambini piccoli con autismo che non hanno ancora sviluppato il linguaggio verbale, è quello di favorire, per comunicare, l'utilizzo di modalità alternative.

Contestualmente, se non è ancora presente, si cerca di far “nascere” nel bambino anche l'intenzionalità comunicativa, attraverso il gioco e i suoi interessi.

In estrema sintesi, per modalità alternative vengono intesi i PECS e i segni (gesti). I PECS sono delle figure che rappresentano in maniera chiara oggetti e attività, mentre i segni sono gesti che possono richiamare o meno nella “forma” un oggetto o l'attività richiesta.

Si cerca di fornire al bambino uno “strumento” per comunicare, per aiutarlo quindi a fare delle richieste, per rispondere a domande, per essere più partecipe.

Il principio semplice di fondo è che il bambino per fare una richiesta deve o consegnare la figura (PECS) o riprodurre un gesto (Uso dei segni).


In entrambi i casi c'è un percorso da affrontare, un insegnamento mirato e strutturato, che tiene conto delle abilità del bambino, ma soprattutto dei suoi interessi, della sua motivazione e del suo contesto.

In entrambi i casi non sarebbe assolutamente precluso lo sviluppo in futuro del linguaggio verbale.

Nel caso in cui il bambino piccolo non ha sviluppato il linguaggio verbale, ma ripete qualche suono spontaneamente o su imitazione (vocalizzi o “sillabe”), o produce in maniera più o meno chiara qualche parola, occorre avviare comunque e subito una forma alternativa di comunicazione?
Non è il caso di insistere sull'imitazione di suoni o parole anziché optare per una comunicazione alternativa?
O per dirla meglio, non c'è il rischio che si dedichi più attenzione all'imitazione di gesti e meno a quella di suoni e parole?
Se il bambino riproduce un gesto, con più o meno aiuto da parte dell'operatore, è possibile “pretendere” che ripeta oltre al segno (il gesto) anche suoni o parole quando vuole fare una richiesta?
Non si rischia di confonderlo in questo modo?
Non c'è il rischio che l'utilizzo del segno distolga l'operatore dai tentativi di farsi guardare negli occhi e nella bocca per “modellare” l'imitazione vocale?
E' possibile avviare forme alternative di comunicazione senza la partecipazione e la condivisione con la famiglia?
Siamo sempre sicuri che è stato l'uso dei segni a elicitare il linguaggio verbale, dal momento che il bambino viene continuamente stimolato in ogni contesto sul piano verbale?








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