Andiamo "fuori" a fare la riabilitazione.

L’apprendimento più efficace e le conquiste più stabili per i bambini con gravi difficoltà si hanno nel proprio contesto di vita, cioè a casa, a scuola, grazie alle esperienze concrete di tutti i giorni. L’apprendimento è semplicemente la pratica quotidiana e costante con le cose e con le persone, non è il frutto di un esercizio.

Quello che il bambino fa e sa è passato prima dalle esperienze concrete.
La routine, le abitudini, i riferimenti costanti portano dei cambiamenti che favoriscono l’adattamento del bambino, stimolano nuove conoscenze, nuovi schemi motori.    

Per questo, se la riabilitazione vuole influire in maniera significativa sul bambino con difficoltà più gravi, dovrebbe passare da un approccio basato sugli esercizi, a un approccio basato sull’apprendimento di strategie e funzioni nei suoi contesti di vita.

Un approccio che consente al bambino di essere in qualche modo protagonista, sempre nel rispetto dei suoi bisogni e dei suoi (non dei miei) desideri.

Consentire, ad esempio, a un bambino che non parla o non cammina autonomamente di potersi “presentare”, di “dire” il proprio nome, di fare delle scelte, di poter chiedere qualcosa, di potersi spostare per allontanarsi da qualcosa di indesiderato. 

Per fare ciò,  la “riabilitazione deve andare fuori”, fuori dai Centri, fuori dai soliti schemi. 

Occorre creare o individuare situazioni quotidiane in cui il bambino possa partecipare attivamente e interagire con gli altri.
A scuola, ad esempio, ci sono diversi momenti che possono contribuire in questo senso: l’appello, le occasioni per rispondere a una domanda dell’insegnante, o per richiedere qualcosa ad un compagno seduto accanto.

In questi casi, mi sto riferendo in particolare a bambini che in genere hanno poche occasioni di fare sentire la propria “voce”, che interagiscono prevalentemente con l’insegnante di sostegno, che comunicano solo con la Mamma o con la terapista.

Solo consentendo al bambino di partecipare e di poter fare si mantiene vivo in lui il desiderio.

Perché un bambino che non viene messo nelle condizioni di riuscire, gradualmente smette  anche di desiderare.




Le mamme "lottano".

Una mamma comprende il suo bambino piccolo e le sue difficoltà di linguaggio, di attenzione o di relazione, e per questo s’impegna con tutta se stessa per rendergli la vita più semplice: rispetta i suoi tempi, interpreta i suoi bisogni e i suoi desideri e li soddisfa, cerca di sostenere e di sviluppare le sue potenzialità.
Io lo vedo, ci sono mamme che fanno veramente del loro meglio per il loro bambino: studiano, leggono, cercano di ripetere quello che hanno visto fare alla terapista, si mettono a giocare a terra, parlano con le insegnanti, gli fanno fare i compiti, parlano con i medici e gli operatori, promuovono incontri, diventano esperte e continuano a occuparsi della famiglia.
Nel frattempo i bambini fanno dei passi avanti, superano delle difficoltà, anche grazie a loro.
Cosa succede alla mamma quando non si sente compresa negli sforzi che affronta ogni giorno? Quando addirittura non viene riconosciuto il percorso che ha già affrontato, con il quale il bambino ha fatto dei progressi?
Succede semplicemente che si arrabbia, perché ha paura che se non è stata compresa lei, forse non sarà compreso neanche il suo bambino. 

E allora cosa fare?

In questi casi io conosco un solo metodo, che è quello di tornare a dialogare con chi si prende cura del vostro bambino, cercando di mettere da parte ogni pregiudizio che ci condiziona e ci toglie serenità. 

Solo attraverso il dialogo possiamo rivedere certi nostri giudizi. 
Solo attraverso il dialogo possiamo far conoscere la nostra visione, le nostre preoccupazioni, i nostri timori. 

Lo so che per voi mamme è difficile cercare il dialogo, quando non vi siete sentite accolte o comprese, ma qui c'è in gioco il benessere e l'interesse del bambino.

E allora prendete voi l'iniziativa, arrabbiatevi pure, lottate. Se non sarete ascoltate non è certo colpa vostra.



  



I test non sono infallibili

I bambini che presentano un disturbo dello sviluppo, in genere, vengono sottoposti oltre alle visite o alle osservazioni, anche a dei test: ad esempio la WISC o la LEITER per l’intelligenza, il Rustioni per la comprensione grammaticale, il Peabody per il vocabolario recettivo, il TEMA per la memoria, le prove MT per la lettura e la comprensione del testo, il CMF per la valutazione delle competenze meta fonologiche, il TPV per le abilità visuo percettive, ecc. I test servono a valutare il bambino e le sue funzioni. Solo con i test è possibile avere una misura obiettiva di queste funzioni. In base al profilo che ne scaturisce, i test, indubbiamente, contribuiscono anche a formulare una diagnosi per il bambino. Preciso che c’è differenza tra la diagnosi e il profilo funzionale. La diagnosi è il disturbo che determina le difficoltà presentate e condiziona l'evoluzione.  Il profilo funzionale descrive le caratteristiche del bambino e le sue difficoltà.

 Bambini con disturbi diversi, ad esempio un disturbo dello spettro autistico e un disturbo della coordinazione motoria, possono avere profili funzionali ai test sovrapponibili, ma hanno indubbiamente evoluzioni diverse, perché loro sono diversi, ma soprattutto perché il disturbo di base è diverso.

I test, tuttavia, non sono la “legge”, non sono il “vangelo”. I test sono somministrati da clinici e vengono interpretati. In base alla mia esperienza clinica i test spesso confermano in modo obiettivo le impressioni, le sensazioni o quanto ricavato da osservazioni e da visite condotte in situazioni più libere.
Può succedere anche che il test, invece, fa emergere un profilo diverso, per così dire più “basso” rispetto a ciò che abbiamo pensato inizialmente del bambino. 

In questi casi decidiamo se ripetere il test, se somministrarne un altro (a un bambino con disturbo di linguaggio somministriamo la Leiter che è un test “non verbale” rispetto alla WISC), se riprovare in un secondo momento, se rivedere o confermare comunque la diagnosi.
Perché intuiamo in un’osservazione libera o in un contesto più naturale delle potenzialità, delle capacità che nel test non sono emerse. Perché constatiamo che il  bambino ha delle prestazioni che si collocano ad un livello superiore rispetto a quanto atteso con il test. 
    

Qualunque decisione prendiamo deriva dal nostro giudizio clinico, dalla nostra esperienza, dalla nostra sensibilità, dal nostro intuito.

Ovviamente anche il nostro giudizio non sempre è infallibile.  


Il bambino non collabora

Il bambino fa la terapia psicomotoria e logopedia perché deve raggiungere determinati obiettivi, entro un tempo definito. “Se lavora anche a casa sicuramente imparerà a …”, abbiamo spesso in testa un obiettivo o un’attività da far fare. E siamo così coinvolti che quando ci viene detto che il bambino non ha collaborato ci dispiace. Giustamente.

La collaborazione presuppone un impegno attivo da parte del bambino a svolgere quelle attività che abbiamo proposto durante la terapia. Ma quando  questo impegno manca in parte o del tutto semplicemente chiediamoci il perché.

Forse ancora il bambino non ha avuto modo di conoscerci o di conoscere l’ambiente nuovo, forse gli abbiamo proposto qualcosa di difficile, o qualcosa di noioso, o forse semplicemente non è dell’umore giusto, o è stanco, o ha fame.  

È un bambino.

Non è responsabile, tutte le volte che non collabora, che “non lavora”. (“non lavora” riferito ad un bambino). Per la situazione particolare che il bambino sta vivendo, non lo è mai responsabile.

Siamo condizionati dagli obiettivi: i colori, gli incastri, la coordinazione occhio mano, le prassie, l’imitazione, la coloritura, i concetti spaziali, le parole.

Siamo “aggrappati” a questi obiettivi perché sono segnali concreti del miglioramento, del cambiamento. Sono i segnali concreti che ci fanno sperare e capire che abbiamo intrapreso la strada giusta. Cerchiamo questi segnali, li aspettiamo.

E per questo non ci basta sapere che la relazione e le emozioni “nutrono”, e aiutano  il bambino, anche quando “non collabora”.
Non ci basta forse perché la relazione non è qualcosa che possiamo quantificare come gli obiettivi. 
O forse perché non ci hanno ancora spiegato che la Relazione cambia le persone, più degli obiettivi raggiunti.










whatsApp e bambini.

Il cervello è un organo molto importante, al servizio delle nostre capacità cognitive e sociali. Viene plasmato dalle esperienze e si modifica nella struttura e nella funzione sempre, ma soprattutto quando siamo giovani. Si “rafforzano” i circuiti cerebrali, o si “indeboliscono” o se ne formano di nuovi.

Ciò accade se inizio a ballare, se inizio a fumare, se inizio a cantare, se inizio a usare internet...

Quando i bambini fanno i compiti e si concentrano, per 10 o per 20 minuti è al lavoro la loro corteccia prefrontale (la parte anteriore del cervello), che gli consente appunto di regolare il comportamento, focalizzando l'attenzione sulle cose importanti, distogliendola da rumori e distrazioni varie.

Cosa succede quando il compito che stanno svolgendo è interrotto continuamente dai segnali acustici di whatsApp e distolgono così la loro attenzione dal compito? Si possono modificare le prestazioni cognitive? Non lo so, ma me lo chiedo.

Cosa succede quando i bambini e i ragazzi utilizzano whatsApp per comunicare, anche cose importanti? Si rischia veramente di modificare il tipo di approccio con le persone come sostengono alcuni studiosi?
Si rischia di perdere delle occasioni per affinare quella meravigliosa capacità che abbiamo di comunicare cogliendo le mille sfumature nel volto della persona che ci sta accanto e nella sua voce?

Su whatsApp non vedo il rossore del volto, l'imbarazzo, l'umiliazione per una frase sbagliata, l'orgoglio, gli occhi lucidi di una persona emozionata. E rischio di scrivere certe cose con troppa facilità, perché non ho la persona davanti, perché non sento le sue emozioni.

Mi riferisco alle competenze sociali ed alla capacità di sostenere una conversazione, che maturano e si affinano con l'esperienza, con il desiderio, con i modelli che osserviamo.

Sono dettagli?

Non lo so, forse no, perché comunque osserviamo che bambini e ragazzi non riescono a liberarsene, non riescono a trattenersi dall'impulso di controllare.

Ci raccontano tutto quello che passa su whatsApp, ci racconteranno tutto? Esistono filtri? Non lo so, ma me lo chiedo.

Si rischia ancora di non riuscire ad apprezzare le cose belle della natura perché non stiamo esercitando i nostri sensi e il nostro desiderio di conquistare e di assaporare le cose? Non lo so, ma me lo chiedo.












Per capire non bastano le parole

Il nostro atteggiamento e il nostro comportamento cambiano a secondo del contesto in cui ci troviamo. Se siamo al supermercato o al cinema, o in ufficio, o dal dottore, usiamo espressioni verbali diverse e abbiamo diversi modi di comportarci, che sono legati a quel contesto, a una consuetudine, a una serie di pratiche sociali condivise.
Il linguaggio è solo un aspetto di queste attività sociali condivise e sia l’espressione che la comprensione sono influenzati dal contesto in cui ci troviamo.
Non ci sogneremmo mai di usare le stesse espressioni quando siamo a giocare a calcetto e quando siamo dal dottore.
Queste espressioni verbali sono capite “al volo” nel contesto in cui siamo, perché siamo già preparati, perché ci aspettiamo di sentirle, il loro significato dipende da un fare condiviso, non è intrinseco alle parole stesse, non può essere svincolato dal contesto.
Espressioni e comprensione delle parole, delle frasi, viaggiano così dentro un sentiero definito, condiviso, già percorso, per cui comprendiamo anche senza ascoltare del tutto e comprendiamo anche in base a ciò che vediamo. 

“il significato delle parole è fuori di noi”.

Questo è tanto vero che il mio cervello mi fa “sentire” ciò che mi aspetto di sentire, in quel momento, in quel contesto, anche quando invece viene detto qualcosa di diverso.

Oppure non “afferro al volo” un’espressione che fa parte decisamente del mio bagaglio lessicale, ma che in quel momento non mi aspetto proprio di sentire.
La nostra capacità di udire e comprendere le parole dipende, quindi, anche da quello che ci aspettiamo e da quello che vediamo.

Possiamo parlare di qualcosa anche senza conoscere le sue caratteristiche.

La competenza linguistica dipende dalla nostra pratica e dal nostro coinvolgimento nei contesti. Il significato non è intrinseco alle parole, ma alla pratica stessa, ad una consuetudine. Non so definire cosa è l’acqua, non so distinguerla da un altro liquido, ma la bevo, la uso per lavare e per cucinare.
È il mio rapporto con l’acqua che la rende quella cosa a cui ci riferiamo quando usiamo la parola acqua.

Possiamo usare delle parole nel linguaggio spontaneo senza conoscerne il significato, perché ci affidiamo inconsapevolmente ad un contesto in cui c’è chi ha tali conoscenze, per esempio posso parlare dell’ornitorinco

anche senza sapere cosa è, anche senza riuscire a distinguerlo, grazie al fatto di riuscire a partecipare a un contesto sociale condiviso, in cui c’è comunque qualcuno in grado di  distinguerlo, di conoscerlo.
Ancora una volta il significato delle parole è fuori di noi, sta nel mondo là fuori, sta in un contesto e in una pratica sociale condivisa.




"la mela non è un frutto"

Può esistere un apprendimento fatto, solo, a tavolino?.
Apprendiamo dall’esperienze che facciamo ogni giorno. Le conoscenze che abbiamo del mondo non sono  dei contenuti che qualcuno ci ha trasmesso con le parole, non sono contenuti incamerati nella nostra testa, sono delle esperienze che si ripetono, a cui aggiungiamo sempre dei nuovi dettagli. A tavolino non facciamo altro che consolidare qualcosa di cui abbiamo fatto già esperienza, a tavolino acquisiamo piccole variazioni rispetto a ciò che abbiamo già conosciuto. “La mela è un frutto”, “l’auto è un mezzo di trasporto”, NO!. Il bambino va a fare la spesa con la mamma e comprano le cose da mangiare, poi si ricorda che il papà gli aveva chiesto di comprare la frutta e la mamma decide di comprare le mele e chiede al suo bambino se le preferisce rosse o gialle, e comprando le mele rosse gli ricorda la storia di biancaneve. La mela non è solo un frutto, la mela è un’esperienza. Posso conoscere la mela senza averne fatto esperienza? NO.

Ma anche quelle cose nuove che apprendo a tavolino sono piccole variazioni, o novità comunque vicine in qualche modo alla mia realtà, alle mie esperienze di vita: ho appreso a tavolino che questo oggetto si chiama cacciavite”, ma il cacciavite è un attrezzo come il martello, il cacciavite non l’ho mai visto, il martello si, ho visto il papà piantare i chiodi.
Inoltre c’è un apprendimento a tavolino di qualcosa che è nuovo, perché comunque viene paragonata a qualcosa di già conosciuto, di cui si fa esperienza: “l’uccello è un animale che vola”, non apprezzerei questa caratteristica se tutti gli animali volassero. L’uccello è un animale che vola rispetto a tutti gli altri che non volano.

Cosa succede a fare il percorso inverso? Cosa succede se voglio stimolare la conoscenza di qualcosa di cui non si è fatto esperienza? Di qualcosa comunque lontana dalla mia realtà? Di qualcosa che tra l’altro nemmeno mi interessa? Può effettivamente succedere che non c’è un reale apprendimento, succede che la dimentico presto, succede che non la utilizzo, succede che non mi serve.  
E' più stabile l'apprendimento delle cose di cui faccio esperienza. Perché? 
Perché ci sono le emozioni, gli odori, i colori , le relazioni, i ricordi, le persone.

L'autismo e le regole sociali

Giovanni è un bambino con un disturbo dello spettro autistico, frequenta la scuola elementare e ha sviluppato il linguaggio verbale. In classe a volte  lancia oggetti, sta in piedi sulle sedie, grida.
Se viene rimproverato è in grado di capire che ha sbagliato e chiede anche scusa.
Giovanni può avere difficoltà a controllare i suoi impulsi, a prevedere le conseguenze dei suoi comportamenti, o ancora a intuire la motivazione che sta alla base delle regole sociali.
In questi casi è sempre opportuno fare l’analisi dei comportamenti osservati per capire cosa eventualmente li può scatenare.
Ma si può pensare anche un lavoro “a tavolino” sulle regole sociali.
Diverse sono le modalità, ma in sostanza si ragiona sui comportamenti corretti e su quelli da evitare.
Ma quello che fa la differenza con bambini come Giovanni è che con questo lavoro le regole non sono più astratte, ma chiare, precise e soprattutto stabili. Perché ora vengono scritte o rappresentate visivamente. Un messaggio verbale dura un istante, un’immagine attaccata alla parete o al banco è stabile, costante.
Un generico “si rispettano le cose degli altri”, poco chiaro per Giovanni, si sostituisce nella sua mente l’immagine “non si lanciano le penne” con i relativi perché concreti, e così via.

Le persone autistiche ad alto funzionamento (Temple Grandin) ci hanno spiegato che i pensieri, gli oggetti, i sentimenti sono rappresentati nella loro mente sotto forma di immagini. Per questo motivo l’uso delle immagini favorisce l’interiorizzazione di una regola. L’immagine  è stabile, è sempre lì, non deve essere interpretata, è precisa e concreta, e può essere facilmente richiamata alla mente.



Come imparare a ritagliare

Tutti i compiti che svolgi durante la giornata, per te e per gli altri, puoi scomporli in parti sempre più semplici e più piccole.

Vuoi degli esempi?

Lavarsi i denti, pettinarsi i capelli, preparare una cosa da mangiare, indossare una camicia, guidare la macchina: sono tutti compiti che puoi scomporre in tante azioni che rispettano una certa sequenza.

Hai mai pensato quante azioni compi la mattina per lavarti i denti: prima prendi lo spazzolino, poi prendi il dentifricio, togli il tappo... Solo se riesci in ogni singola azione e se rispetti la giusta sequenza avrai i denti puliti. Ma anche la singola azione, se ci pensi, può essere ulteriormente scomposta in azioni più piccole e più semplici. Aprire il tappo del dentifricio comporta una rotazione del polso e contemporaneamente dei movimenti fini delle dita che ruotano il tappo e lo tirano su.

Per quanto abile puoi essere, non hai mai appreso tutte insieme le azioni, qualunque sia il compito da svolgere. Hai sempre imparato prima delle parti più piccole.

C’è stato un tempo precedente, magari quando eri piccolo, in cui ti sei “esercitato” a fare tanti movimenti per altri scopi. Ora quegli stessi movimenti li stai inglobando in compiti diversi e più evoluti.

Questo principio deve essere applicato, soprattutto, per quei bambini che hanno particolari difficoltà a svolgere gli atti della vita quotidiana e non solo: scomponiamo il compito “difficile” nelle parti più piccole e se non basta in parti ancora più piccole.
E ci concentriamo sulle singole azioni, su singoli movimenti,  anche in momenti diversi della giornata. Poi inseriamo l’azione nel compito da svolgere, aiutiamo il bambino se serve e ci sostituiamo a lui per tutto il resto, cioè svolgiamo noi le altre azioni per lui.
Insegniamo ogni singola azione per volta, poi aiutiamolo a svolgerle tutte insieme, nella giusta sequenza. Forniamo ogni aiuto necessario, guidiamo anche fisicamente le sue mani.
In questo modo aiutiamo veramente il nostro bambino, provateci.
Il primo passo è teorico: fare l’analisi del compito per individuare le singole azioni necessarie.
Fai ad esempio, l’analisi del compito “tagliare con le forbici un foglio di carta in due” Sei costretto mentalmente a ripercorrere tutti i passaggi e ti ritrovi a immaginare diverse azioni.
Il passo successivo è l’osservazione del bambino alle prese con le forbici, in questo modo puoi capire quale tra le varie azioni risulta più difficile e se per lui è chiara la sequenza.

Poi si passa all’insegnamento: attraverso la dimostrazione, la guida fisica e verbale insegni un'azione per volta. 

Infine, non dimenticare una buona dose di abbracci, baci e coccole. 

Va bene così

La disabilità si caratterizza per l’incapacità o la difficoltà del bambino a svolgere le funzioni proprie della vita: camminare, parlare, leggere, scrivere, mangiare autonomamente, vestirsi, lavarsi, capire e ragionare sulle cose. Alcuni bambini a causa della loro grave disabilità non potranno acquisire determinati obiettivi e certe abilità: non gli appartengono, non sono insite nella loro natura. Si tratta di obiettivi con un alto valore simbolico, simbolo di una normalità tanto sperata. Obiettivi quasi “imposti”, perché fanno parte di noi, della nostra storia, della nostra cultura. Non riusciamo a pensare a storie diverse, a modalità alternative, perché non le conosciamo e non ne abbiamo esperienza. E allora rischiamo di riversare tante energie e tanti sforzi in una direzione sbagliata, verso obiettivi che non potranno essere acquisiti. Cosa fare in questi casi? Fare più terapia? Aspettare? Continuare a illuderci? Insistere? Cercare proposte alternative? È possibile prenderne atto nel rispetto del bambino? È possibile pensare a una storia diversa da quella sperata? Non lo so, non ho la ricetta. Non si tratta di semplici nozioni da acquisire. Non siamo pronti, non siamo ancora pronti. Ci vuole tempo per capire, per elaborare, per accettare, per toccare con mano, ed è giusto che sia così.

Il bambino non deve piangere

Il bambino, quando è piccolo, apprende e fa tante conquiste, in modo naturale, spontaneo, osservandoci e imitandoci. E quando ripete qualcosa, un suono o un gesto viene tanto gratificato e allora ce lo farà rivedere ancora tante volte perché a lui interessa la nostra reazione. Siamo esseri sociali, siamo nati non per stare da soli, siamo interessati agli altri e vogliamo stare con loro. La crescita cognitiva, affettiva e relazionale, avviene in un clima di fiducia, di serenità, di approvazione, di piacere.
Per questo motivo non possiamo pretendere che se un bambino sta male, se non è sereno, se addirittura piange, possa trovarsi in una condizione favorevole per apprendere.

Di questo si occupa la riabilitazione, di apprendimento.

L’apprendimento presuppone un’intenzionalità al cambiamento, un approccio verso qualcosa di nuovo.

E se questa situazione nuova è qualcosa non gradita al bambino o che lo fa stare male, scatta inevitabilmente un rifiuto e la situazione viene “registrata” nel cervello, grazie all’amigdala, come negativa e non viene favorito così l’apprendimento.

Gli atti che compiamo hanno anche una connotazione emotiva, relazionale, il riconoscimento delle persone e delle cose non è solo un atto cognitivo.

Ci sono dei bisogni che vengono prima di ogni altra cosa: sentirsi sicuri, protetti, sereni, stare bene.

Quando incontriamo il bambino per le prime volte, se questi bisogni vengono soddisfatti, il bambino si pone già in una situazione di apprendimento, perché comunque si relaziona con qualcosa di nuovo.

Se il bambino non vuole fare una determinata attività, chiediamoci prima se i suoi bisogni primari sono soddisfatti e poi facciamo in modo di fargliela desiderare, senza imposizioni.
Se l’emozione che il bambino prova è negativa non ci può essere per lui la voglia di continuare, la voglia di giocare, la voglia di impegnarsi e quindi di apprendere.




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