La prima visita

Intuisci, senti che il tuo bambino ha delle difficoltà, ha “qualcosa che non va”: non ti sorride, non si interessa ai giochi, non sta ancora seduto, non dice nessuna parola, è molto irritabile e non si consola facilmente. Le tue sicurezze possono iniziare a vacillare. Perché non hai esperienza, ti mancano dei riferimenti: il tuo bambino può avere comportamenti diversi rispetto ai bimbi che conosci e che hai conosciuto, può esprimere bisogni e desideri in un modo diverso, e allora ti vengono dei dubbi, ti fai delle domande. Già prima che te lo dicessero gli altri, i parenti o il pediatra, lo sentivi già che c’era qualcosa che non andava, ma non sapevi definirlo bene o ancora non eri pronta a vederlo.
Magari sei stata consiglia da qualcuno, dai parenti, dal pediatra, dalle insegnanti della scuola materna: “fai vedere il bambino perché ancora non parla bene, non cammina, si comporta male, piange sempre”. Questo ha determinato in te inizialmente una resistenza, un rifiuto e ti sei presa del tempo per pensare.
Puoi, invece, prima ancora dei consigli degli altri, aver preso tu la decisione di far visitare il tuo bambino, anche se qualcuno te lo sconsigliava o ti diceva che eri ansiosa e dovevi solo aspettare. Non ti sei sentita capita, ti sei sentita sola e non sostenuta. Arrivi alla prima visita. La prima visita non si dimentica facilmente, perché sei coinvolta, sei la mamma: paure, speranze, preoccupazioni, insicurezza si mescolano insieme.
Le parole del medico non le hai più dimenticate. Hai ascoltato con attenzione ogni parola, magari non riuscendo ad afferrare bene il significato di alcuni termini, hai osservato la faccia del medico per scrutare un’espressione, una qualunque cosa che potesse allontanare quei dubbi che ti portavi dentro. E invece hai avuto delle conferme. La prima volta non è stata fatta nessuna diagnosi, nessun nome particolare: “vediamo nei prossimi mesi”, “dobbiamo fare assolutamente dei controlli”, “il bambino deve fare tanta fisioterapia”. Forse il medico distrattamente ha usato  qualche termine nuovo per te, che non potevi aver sentito prima: ipotonia, ipertonia, disprassia, ritardo, deficit dell’attenzione, ecc. Ti sono stati consigliati degli esami da effettuare presso una struttura ospedaliera per un approfondimento, per una diagnosi. Hai iniziato a fare tante domande, ma non hai avuto le risposte che desideravi. Il tuo bambino non ha mostrato tutte le cose belle che fa a casa e per questo ti sei rammaricata e hai provato a interagire con lui per ottenere un gesto, una parola, una data prestazione.
La prima visita serve solo ad orientare, a iniziare a conoscere il bambino, ad aiutarlo a conoscere un nuovo ambiente.
Sei uscita da quella stanza preoccupata, confusa, arrabbiata, speranzosa. E con tante domande inespresse. Ma c’è tempo. Ora il prossimo passo è capire cosa fare, dove andare. Hai bisogno di fare silenzio, di sfogarti, di confidarti con qualcuno.


Incontriamoci

Siamo abituati a descrivere e a valutare lo sviluppo del bambino piccolo attraverso le sue “conquiste motorie” o addirittura attraverso i suoi riflessi: tiene la testa dritta, ora sta seduto, fra poco impara a gattonare, non ha le reazioni di equilibrio, si mette in piedi con l'appoggio, finalmente cammina.

Per questo motivo quando un bambino piccolo ha un ritardo possiamo focalizzare la nostra attenzione sui movimenti e sugli aspetti motori dello sviluppo del bambino. Magari ci possiamo trovare a stimolare un dato movimento o un passaggio posturale nella speranza che venga acquisito, oppure possiamo addirittura muovere direttamente noi gli arti del bambino.

Ma in realtà in cosa consiste realmente il nostro intervento?

Se ci riflettiamo qualunque movimento del bambino è un “incontro” con qualcuno, con parti di se o con qualcosa. In questo incontro non c'è solo il bambino che si muove, ma c'è anche l'oggetto toccato o la persona che è toccata, c'è insomma un incontro. Quest'incontro è un'esperienza unica e sempre diversa, che può avvenire grazie a una spinta innata nel bambino e grazie alla nostra presenza. 
Il “nostro compito” è “semplicemente” quello di esserci, di essere presenti nell'incontro. Non c'è il controllo del capo, non c'è lo stare seduti, ecc, c'è sempre un incontro che avviene in situazioni diverse o in posizioni diverse.

L'incontro non è qualcosa che fa parte solo del bambino, non è un'esperienza che può fare da solo. Per questo, non stimoliamo il controllo dei movimenti, ma ci siamo perché il bambino possa sperimentare nuove forme di incontro con noi e con il mondo, attraverso i sensi e i movimenti.
Il movimento non è lo strumento che mi permette di fare una data esperienza, ma è esso stesso parte dell'esperienza dell'incontro.
Il bambino vuole toccare il giocattolo, poi dopo che lo ha afferrato lo lancia verso la mamma e guarda la sua reazione: non parliamo di movimenti come aprire e chiudere la mano, ma di esperienza di incontri ripetuti.

Guardare al bambino e al suo sviluppo in questi termini mi permette di guardarlo in modo diverso, di usare un linguaggio diverso o di avere anche un approccio diverso.

L'obiettivo del nostro intervento non è di tipo motorio, l'obbiettivo è “incontrarsi”, “esserci”.








La sala d'attesa

Il tuo bambino ora frequenta un centro di riabilitazione per tre volte la settimana. Lo accompagni quasi sempre tu, per questo ti sei dovuta organizzare e magari hai dovuto fare qualche rinuncia. Aspetti che finisca la terapia in sala d’attesa e hai la possibilità di vedere che non sei sola. Ci sono, infatti, tante altre mamme che come Te accompagnano il bambino e aspettano. Con il tempo familiarizzi con l’ambiente, con le persone e con le mamme. Ogni mamma vive a modo suo quest’esperienza, perché lei è diversa, così come è diverso il suo bambino. La sala d’attesa è un luogo di confronto, di scambio, come ce ne possono essere altri, in cui ci si sente compresi, perché in qualche modo si vive un’esperienza simile. Si condividono molte cose: la stessa terapista, il ricovero nella stessa struttura, la stessa diagnosi, la stessa scuola, i progressi del bambino e le sue difficoltà, la stessa condizione di “attesa”. Si condividono anche le cose che non vanno: l’aver aspettato tanto per iniziare la terapia, varie problematiche a casa e a scuola o al Centro, la terapista che ancora, secondo voi, non aiuta il bambino come dovrebbe. Capisci, anche, che in questo cammino che state affrontando c’è chi è più avanti, se non altro perché frequenta il centro da più tempo. E inevitabilmente ti trovi a fare confronti, senza rendertene conto e ti concentri su singoli aspetti senza poter avere una visione d’insieme. Voglio dire che è difficile conoscere le storie degli altri bambini, non c’è necessariamente sempre la stessa diagnosi, ma ti puoi convincere che se quel bambino è migliorato ed è diventato come lo vediamo, è grazie a quella terapia e a quella terapista, tralasciando di considerare che magari aveva una diversa diagnosi o diverse potenzialità e abilità. Ti concentri su un singolo aspetto, ma non puoi avere una visione d’insieme e quindi rischi di intravedere risposte o soluzioni non adatte alla tua situazione. Il confronto è comunque utile perché ci fa sentire meno soli, ci fa sentire compresi e possono scaturirne delle belle intuizioni. Puoi prendere spunto dall’esperienze delle altre famiglie per affrontare una questione o una situazione che ti da tante preoccupazioni. Puoi anche fornire un sostegno a chi ne ha bisogno, semplicemente con il tuo esempio. Questo ti farà stare meglio, perché potrai sperimentare che anche nella sofferenza si può essere d’aiuto agli altri. Nell’incontro si possono ricevere e donare dei sorrisi, delle rassicurazioni, delle belle esperienze, che ti lasciano sempre qualcosa di positivo.

Un appello ai dirigenti scolastici

I bambini che hanno difficoltà di apprendimento, non specifiche, derivanti cioè da qualche forma di disabilità, possono usufruire a scuola di un insegnamento individualizzato (insegnante di sostegno). L’insegnante di sostegno attua con competenza e passione un intervento, un progetto, una didattica che tiene conto delle  caratteristiche del bambino, delle sue difficoltà e delle sue abilità.
L'insegnante di sostegno viene assegnato al bambino all'inizio dell'anno scolastico per un certo numero di ore settimanali.  
Almeno a Ragusa, la prassi prevede che il medico certifichi ai fini dell’assegnazione il grado di difficoltà del bambino che può essere grave o lieve. Il provveditorato, sulla base di queste certificazioni, provvede ad assegnare alle scuole le insegnanti per un certo numero di ore. Il provveditorato, a quanto pare, non tiene conto dei progetti redatti dalle insegnanti e dal GLH per ogni bambino, in cui vengono richieste le ore di sostegno.  A questo punto, il dirigente scolastico assegna al bambino certificato come grave il massimo delle ore e al bambino certificato come lieve un minore numero di ore (spesso 6 ore o poco più).
In questo modo, il criterio per assegnare l’insegnante di sostegno e il numero di ore è una certificazione e più precisamente un numero: il comma 3 che equivale a gravità e il comma 1 che equivale ad un grado lieve.

Questa è la prassi

Le cose sono indubbiamente più articolate di come le sto rappresentando e ci sono delle dinamiche interne alle scuole che io non conosco, ma di fatto questo è ciò che constato.   

Tutti sappiamo, invece, che l’insegnante non viene affidato a un pezzo di carta, ma ad un bambino e ogni bambino ha caratteristiche ed esigenze diverse.

Senza entrare nel merito di diagnosi e valutazioni, le insegnanti constatano perché lo vivono ogni giorno quali sono le reali esigenze del bambino con difficoltà e quindi hanno cognizione di quante ore di sostegno ha effettivamente bisogno. In questo possono essere coadiuvati da specialisti ed equipe, dove sono presenti.

In questo modo un bambino certificato come comma 1 può avere anche più ore rispetto ad un altro certificato con un comma 3. Questo può essere possibile e motivato.


Non dico niente di nuovo, ma immagino comunque le varie obiezioni o precisazioni.

Lui calcia e io paro

Il bimbo durante il parto ha subito una lesione del plesso brachiale che ha determinato una paralisi del braccio (“paralisi ostetrica”). La paralisi è evidente. Durante un momento del trattamento riabilitativo la mamma è colta da un senso di tristezza. Reazione normalissima, è il “suo” bambino.
L'altro figlio della signora di quasi 4 anni in qualche modo percepisce tale stato d'animo: “Mamma perché sei triste?”, poi si ferma, aspetta di essere guardato e continua “quando sarà grande lui calcia e io paro”. Silenzio...

I bambini, ancora liberi dai condizionamenti culturali, vivono la realtà per quella che è, senza giudicarla, senza temere il dopo, senza desiderare altro, senza guardare al passato. Vivono cioè il presente senza aggiungere giudizi del tipo “non potrà..., non sarà..., ma perché proprio a lui...se solo...deve imparare assolutamente a...”.

Il bambino non pensa che il fratellino può soffrire per la sua paralisi, perché quando gli fa le boccacce lui gli sorride e per questo continua a fargli le smorfie, e non pensa ad altro. Lui la paralisi non la “vede”, lui vede il bambino, semplicemente per come è, vede che non muove il braccio e basta. Gioca con lui e non vede l'ora di poter giocare a pallone con lui, che significa stare insieme senza alcun problema, e se non saprà parare gli dirà di calciare per fare i gol che è meglio.

Ancora è libero da giudizi e da quei condizionamenti che ci portano ad essere soddisfatti (solo) se otteniamo e se raggiungiamo determinati obiettivi per noi e per gli altri. 














Il bambino ancora non ...

Di un bambino di 8 mesi non diciamo “ancora non cammina”, perché un bambino a 8 mesi non può aver acquisto tale abilità.

Di un bambino di 1 anno non diciamo “ancora non parla”, perché semplicemente “si sta occupando d'altro”, altrettanto significativo, come ad esempio comunicare.

Di un bambino che non formula le frasi non diciamo “ancora non racconta storie”.

Per i bambini che hanno uno sviluppo regolare “tutto va bene”, non pensiamo affatto che il bambino debba anticipare le tappe, come camminare a 8 mesi o parlare a 1 anno o raccontare prima di produrre le frasi.

Ma quando il bambino ha qualche difficoltà, ecco che spunta la parola “ancora”: ancora non fa questo, ancora non cammina, ancora non parla, ecc.

La parola “ancora” è intrisa di giudizi, confronti rispetto alla “norma”, confronti rispetto agli altri bambini. La parola “ancora” lascia l'”amaro in bocca”, ci fa arrabbiare, ci delude, ci fa vedere il bambino con occhi diversi.

Il bambino è così e non può essere diverso. “Il bambino è così” non significa che non cambia, il cambiamento fa parte di lui.
Possiamo descrivere il bambino e i suoi comportamenti senza fare alcun confronto e senza emettere giudizi su come è rispetto a come dovrebbe essere.
Questo non significa rassegnazione, ma comprensione e accettazione della realtà.

Comprendere la realtà significa non pretendere che un bimbo di 8 mesi cammini e corri.

Comprendere la realtà ci fa capire cosa fare. Comprendere il bambino ci fa apprezzare ciò che fa. 

Comprendere il bambino ci fa lottare perché il bambino sia rispettato e accettato per ciò che è.


Il genitore sa cosa fare o lo saprà, agisce e agirà quando è pronto. E anche nel suo caso non occorre usare la parola ”ancora”.       

Due tentazioni, di noi operatori della riabilitazione.

Per conoscere i bambini piccoli, le loro caratteristiche, il livello di sviluppo, noi operatori della riabilitazione abbiamo inizialmente una sola cosa da fare: giocare con loro. Attraverso il gioco libero, soprattutto se proponiamo i loro giochi preferiti,  abbiamo la possibilità di sentire il loro linguaggio, capire cosa comprendono, cosa conoscono, vedere se imitano gesti o azioni con gli oggetti, se partecipano al gioco simbolico, come coordinano i movimenti, come si relazionano. Ciascun aspetto può essere indubbiamente approfondito in altri momenti, magari con dei test. Ma fin dall’inizio è possibile avere un’idea del profilo del bambino, cioè capire in quali aree dello sviluppo (ad esempio il linguaggio o la motricità fine o il disegno, ecc.) ha difficoltà e in quali invece le sue abilità sono adeguate. Se riteniamo che è necessario un intervento riabilitativo occorre proporlo e spiegarlo alla famiglia.

Inizia in questo modo un percorso.

I genitori vengono coinvolti perché sono loro i protagonisti, sono loro che contribuiscono in modo sensibile alla crescita e allo sviluppo del loro bambino. Ognuno lo fa a modo suo, né meglio, né peggio di altri. Ognuno trasmette ciò che sente, ciò che fa parte del suo modo di essere.

A volte, noi operatori, siamo presi dalla facile tentazione di esprimere dei giudizi sui comportamenti dei genitori, pensando di conoscere tutta la realtà o di saper ciò che è giusto o sbagliato. Pensando di dover o poter “correggere” qualcosa.
Non c’è da correggere niente, non c’è niente di sbagliato, né di corretto.
Tutto va come può e come deve andare.

C’è da prendere atto della realtà e accettarla così com'è, se vogliamo che anche gli altri la accettino.

Altra tentazione possibile di noi operatori è quella di pensare di poter focalizzare il nostro intervento, solo su singole aree dello sviluppo, come se il loro funzionamento è a se stante. Ciascuna abilità nel bambino non “agisce”, per così dire, mai da sola, senza cioè l’intervento di tutte le altre.
Non esistono moduli separati nel nostro cervello, dove inseriamo dati che poi vengono utilizzati al bisogno. In ogni compito agiamo con il coinvolgimento di tutto il corpo e di tutto il cervello,  e le singole abilità agiscono sempre insieme alle altre. 

Non esiste, cioè, il compito che richiede solo l'azione della nostra attenzione o della memoria o del linguaggio o della motricità fine. 

Siamo tutti d'accordo...?! 







Il progetto condiviso

La bambina ha 7 anni e frequenta il secondo anno di scuola elementare. Fa controlli periodici presso una Struttura lontana da dove vive. Poi è seguita presso un Centro di Riabilitazione dove esegue periodicamente delle visite per stabilire in equipe il programma e gli obiettivi del trattamento ed effettua due volte a settimana la psicomotricità e due volte la logopedia. A scuola frequenta con un’insegnante di sostegno. Infine fa logopedia privatamente due volte a settimana. La bambina è tanto stimolata e lentamente sta facendo dei progressi. Riesce a collaborare con tutte le figure che la seguono. Ma attraverso una semplice analisi ho capito che l’approccio con la bambina, tra le varie figure, è decisamente poco uniforme. A scuola hanno provato con la “lettura globale”, invece una logopedista sta provando ad avviare l’approccio alla lettura di tipo fono sillabico. La psicomotricista fa colorare, l’insegnante fa copiare le parole. Ho fatto solo degli esempi, ne potremmo fare tanti altri. Non ho certezze, ma se ci mettiamo nei panni di questa bambina, capiamo che non le stiamo rendendo il compito semplice. Glielo stiamo complicando. La bambina deve adattarsi ai nostri diversi modi di insegnare, che avranno tanti punti di contatto, ma su altri punti chiave no. Qui non si tratta necessariamente di stabilire che il mio metodo è migliore di un altro. Questa è una cosa di buon senso, la bambina ha difficoltà a seguire il programma scolastico, se poi gli proponiamo approcci diversi rischiamo anche di ritardare l’acquisizione degli obiettivi. Immaginate di dover imparare a guidare un autobus, vi è richiesta una buona dose di impegno e di attenzione. Ma avete due istruttori che vi fanno utilizzare metodi diversi. Voi ancora non avete imparato a guidare, quindi rischiate di avere tanta confusione. Per questi motivi, nei casi di bambini con difficoltà è opportuno incontrarsi, scuola, famiglia, centro di riabilitazione e terapisti privati..., per condividere i rispetti programmi di lavoro, il proprio percorso, i propri obiettivi e le modalità di insegnamento e cercare una linea comune. Ognuno con le proprie mansioni e specificità. Non c’è da imporre niente a nessuno. È veramente possibile coordinarsi e marciare uniti, nell’interesse di tutti e del bambino: a scuola hanno introdotto il grafema “p”, in logopedia la logopedista aiuta la bambina a discriminare il suono “p” e a cercare le parole che iniziano con quel suono.
La vita ce la complichiamo a volte da soli, non complichiamola ai bambini. Perché la vita è semplice, è bella, se c’è qualcosa che possiamo fare facciamola, adattandola con creatività ai nostri contesti.












Le parole che utilizziamo per descrivere il bambino

F. è un bambino di 6 anni, frequenta l’ultimo anno di scuola materna, si muove in continuazione e passa da una cosa all’altra senza completare niente. Il suo linguaggio è in ritardo, non riesce a raccontare gli eventi della propria vita, produce frasi molto semplici, con alcune imprecisioni fonologiche. I pre requisiti della letto scrittura sono carenti, emergente la copia di figure, non scrive il suo nome spontaneamente, le competenze meta fonologiche di sintesi e analisi sillabica si attestano intorno al 10° centile. Le prestazioni di comprensione linguistica grammaticale e di vocabolario si attestano ad un livello di 4 anni e mezzo. La motricità fine non è adeguata, così come le prassie visuo costruttive, non riesce a riprodurre con i cubetti modelli quali il ponte o la scala. È presente impaccio motorio, non riesce ad acchiappare la palla, non riesce a saltare su un piede, l’equilibrio statico e dinamico è precario.

F. è un bambino di 6 anni, frequenta l’ultimo anno di scuola materna, è molto vivace, con mediazione e contenimento porta a termine semplici attività. Il linguaggio è migliorato, è discretamente intellegibile, produce frasi semplici spontaneamente, descrive semplici sequenze temporali, risponde a domande relative a situazioni personali. Alla valutazione dei  pre requisiti della letto scrittura si evidenzia: traccia e copia linee diversamente orientate, copia il suo nome, riesce nella sintesi e analisi sillabica di parole bisillabiche. Il vocabolario è migliorato, ha acquisito le principali categorie semantiche, comprende frasi con riferimenti spaziali. Relativamente alla motricità fine manipola materiale morbido, riproduce la torre con i cubetti e con mediazione “costruisce” il ponte. Per quanto riguarda la coordinazione motoria F. lancia la palla verso un bersaglio, accenna piccoli salti a piedi uniti, mantiene l’equilibrio su un piede per pochi secondi.   

Sono due descrizioni diverse che fanno riferimento allo stesso bambino: in un caso si descrive ciò che non fa, nel secondo ciò che fa. Le parole non possono mai pienamente descrivere la realtà, ma indubbiamente possono condizionare la nostra visione e i nostri giudizi: “si è migliorato, ma ancora non è in grado di …”.

Nel percorso di accettazione le parole che utilizziamo, sia che parliamo con il bambino che con i suoi genitori, possono essere d’aiuto.   


Le attività da fare insieme al bambino non cambiano, ma può cambiare il nostro approccio quando accettiamo la realtà, senza la pretesa che cambi. E la cosa bella è che più accettiamo la realtà e più questa cambia, soprattutto perché cambiamo noi e riusciamo a vedere ancora meglio il bello che c’è nel bambino, a prescindere dalle sue prestazioni.

I rischi dell'ABA

G. è un bambino autistico di 5 anni. Gli piacciono tanto le macchinine e si dispera quando si cerca di interrompere il suo gioco. Per diverse ore a settimana è impegnato con l’ABA. Ha sviluppato il linguaggio verbale, denomina tante figure, risponde a semplici domande: “ come ti chiami ?”, “quanti anni hai ?”, ecc. Secondo l’ultimo programma che è stato fatto da un importante supervisore il bambino deve imparare a fare almeno 5 mand, cioè delle richieste spontanee. Questo significa che G., se vuole qualcosa come l’acqua o come la sua brioscina, la deve richiedere spontaneamente, senza alcun suggerimento: solo se formula la frase “voglio acqua” la mamma gli darà un po’ di acqua senza soddisfare del tutto il suo bisogno, in modo che G. ritorni presto a richiederla. La mamma conosce e applica bene la procedura per insegnare i mand. Ha nascosto le macchinine e l’acqua e le merendine non sono a portata di mano. È molto coinvolta e vuole dimostrare di poter ottenere dei risultati.
Un giorno G. mentre stava giocando inizia a piangere perché si è rotto il suo giocattolo, e si dispera come tanti bambini in queste occasioni. “Cosa è successo?” chiede la mamma, “rotto” risponde, piangendo il bambino. Inizia uno scambio fatto di domande e risposte, anche se la mamma pensa che questa sia l’occasione per ottenere dei mand. È un momento, in cui c’è condivisione, il bambino ha fatto anche qualche “commento”, la mamma insiste un po’ per ottenere qualche richiesta che prova a suggerire, ma il bambino “non recepisce”. 
Presto la mamma si accorge che ciò che sta avvenendo è molto più importante dei “suoi” obiettivi. Il bambino esprime delle emozioni e ha bisogno di essere consolato. Allora la mamma mette da parte i suoi programmi e abbraccia il bambino. Lui si lascia abbracciare e piano piano si calma. “lo possiamo ricomprare” gli sussurra la mamma…senza preoccuparsi di niente, senza preoccuparsi di poter “rinforzare” così il suo pianto.
Aveva presto capito che il bambino non è la sua diagnosi o i suoi mand da ottenere e mostrare. Era tanto condizionata da tecniche d’insegnamento e spiegazioni dei comportamenti, che, per un attimo, aveva perso l’intensità di un momento. E aveva anche capito che il suo bambino avrebbe fatto comunque le richieste anche senza i suoi interventi, perché lui già risponde alle domande, perché lui fa i commenti, perché lui esprime le emozioni, senza alcuna procedura.
            
   


Dopo la prima visita...alcuni scenari

Vedo il bambino per la prima volta all’età di 18 mesi. Attraverso il gioco, se è messo a suo agio, ho la possibilità di conoscerlo e di osservare il suo comportamento. Chiedo anche ai genitori se il bambino è stato diverso rispetto a come loro lo conoscono. Ovviamente  confermo loro che a casa il bambino mostra con più facilità tutto le cose belle che fa.

Posso riscontrare degli aspetti del comportamento e dello sviluppo che rientrano, per così dire, all’interno della variabilità fisiologica: un bambino può camminare a 15 mesi e uno a 12 mesi, in entrambi i casi lo sviluppo motorio è regolare.

Posso riscontrare delle difficoltà che non configurano affatto un disturbo e sto molto attento a non prefigurare nessuna diagnosi futura, perché il bambino mostra comunque delle abilità che mi fanno capire che supererà le difficoltà osservate: non sale e scende le scale, ma lo fa con appoggio e quindi da qui a poco se gli si da fiducia andrà da solo. In questi casi non è necessario, secondo me, fare alcuna riabilitazione.

Posso invece avere un sospetto, perché riscontro determinate difficoltà. Qui la situazione diventa più delicata. Condivido con la famiglia le mie osservazioni e indico e faccio vedere cosa è utile fare con il bambino. Faccio degli esempi, ascolto le loro preoccupazioni, li sostengo, rinforzo quello che già fanno a casa o che mi fanno vedere, programmo nuovi incontri a breve termine. Non comunico nessuna diagnosi in questi casi, perché sono necessarie altre osservazioni e visite. 

Posso anche proporre un percorso riabilitativo per le difficoltà riscontrate.

Ricordo che la terapia la facciamo al bambino, non alla diagnosi del bambino.  

Se la diagnosi è chiara fin dall'inizio, ovviamente la comunico con i tempi e i modo opportuni.

Poi, purtroppo, in presenza di alcune difficoltà, ci sono diagnosi e sospetti diagnostici sbagliati che vengono comunicati. In questi casi si mette in moto un percorso legato a quel tipo di diagnosi, che magari non era del tutto necessario, ma che è ormai difficile da arginare. Il bambino fa dei progressi, ma li avrebbe fatti comunque anche senza tutta quella terapia.

C'è chi sostiene che la terapia riabilitativa in questi casi non ha effetti collaterali. Dipende...Dipende da tante variabili.   




   
      




Autismo e psicomotricità

Le linee guida sull’autismo indicano come prima scelta di trattamento l’intervento cognitivo comportamentale, per intenderci l’ABA. Ma le prestazioni dell’ABA non sono garantite dal sistema sanitario, almeno fino ad ora. I trattamenti garantiti all’interno dei centri di riabilitazione sono la psicomotricità e la logopedia.  

ll bambino con un disturbo dello spettro autistico quando è piccolo necessita di un intervento mirato a migliorare la relazione, o almeno a implementare una serie di abilità quali lo sguardo, l’imitazione, l’alternanza del turno. Attraverso giochi o canzoncine la terapista ricerca lo sguardo e stimola l’imitazione. Crea delle sequenze di gioco interessanti, delle routine, in cui il bambino viene gradualmente coinvolto.

Un altro obiettivo prevede di stimolare nel bambino la richiesta, l’intenzionalità comunicativa, provando a guidarlo a ripetere forme condivise di comunicazione come il gesto dell’indicare quando desidera qualcosa (pointing).

Alcuni bambini necessitano di un intervento più strutturato, fatto cioè di attività molto organizzate, all’interno di spazi delimitati, che hanno un inizio e una fine, guidate dall’operatore e non lasciate quindi alla spontaneità e alla libera iniziativa del bambino.

Ci sono invece bambini che fin dall’inizio si lasciano coinvolgere nel gioco facilmente anche se questo non è molto strutturato, ma per così dire più libero.

Poi ci sono il gioco simbolico, la coordinazione occhio mano, la motricità fine, l’attenzione, ecc.

Tutto questo la terapista della (neuro) psicomotricità lo sa e lo fa.
E conosce anche le tecniche comportamentali che applica a seconda del caso, per il tempo che ha a disposizione.

In ogni caso il suo intervento è incentrato sul bambino e sulla relazione, nel senso che non si limita a singole funzioni come la motricità o il tono muscolare.

Tra gli aspetti del metodo ABA che contribuiscono a renderlo efficace ci sono indubbiamente le tecniche d’insegnamento utilizzate che tengono conto delle  modalità di apprendimento della persona autistica, ma anche il tempo dedicato al trattamento. 

Ad oggi così come è organizzato il sistema, invece, la psicomotricità (e la logopedia) viene concessa per poche ore settimanali, per cui occorre prevedere altri momenti d’insegnamento a scuola e a casa...



   



Alla Mamma del bimbo prematuro

Il bimbo è nato prematuro, in maniera inaspettata.

All’inizio si è dovuto impegnare tanto per adattarsi all’ambiente, quando era dentro la tua pancia era protetto e i suoni erano dolci e lievi. Il suono più dolce era certamente la tua voce che già riusciva a distinguere. C’è stato il ricovero con le cure, ma anche con i rumori infernali dei monitor che il bimbo non poteva tollerare. 
Tu, che dovevi realizzare ancora cosa era successo, ti trovavi in un ambiente nuovo a dover guardare e toccare il tuo bambino da lontano.

Impossibile descrivere le tue emozioni e  tuoi pensieri.

Giunti a casa ti sei preoccupata di ridurre gli stimoli che lo disturbavano. Il tuo bimbo, ora, può finalmente sentire, ancora più forte, con più continuità, il calore delle tue braccia.

Lo accompagni nello sviluppo con il contatto, con la tua voce, con le tue braccia, con i tuoi sorrisi, con tutta te stessa. Quello che fai è ciò che gli serve: se piange lo culli e lo rassicuri o provi a dargli da mangiare, cerchi il suo sguardo e il tuo volto si riempie di gioia quando lui ti sorride. 
Tutto avviene in modo spontaneo e fai la cosa giusta al momento giusto e se ti distrai un po’ torni subito dopo a dargli l’attenzione e la tua presenza. 
Il bimbo è più sereno e può dedicarsi a se stesso e agli altri con più continuità.

A due mesi di età corretta, il suo sguardo è vivace, certo si distrae un po’, ma Tu sei lì per ricercarlo e per farti seguire e per cercare un sorriso. Non controlla ancora bene i movimenti e per questo lo aiuti semplicemente contenendolo tra le tue braccia.

Ti accorgi che all’inizio non servono giocattoli perché gli basti Tu.

Ti accorgi che non puoi insegnargli i movimenti, lui impara da solo grazie al fatto che è curioso e si muove per entrare in contatto con Te, con le persone e con le cose.

Ti accorgi che se lo lasci libero di sperimentare lui impara prima e meglio.

Ti accorgi che non  serve e non puoi anticipare i tempi, lui ha bisogno di tempo per provare e per imparare. Anticipare significa fargli fare qualcosa per cui non è ancora pronto, per cui rischia di non imparare bene.

Ti accorgi che i movimenti che fa sono sempre più precisi e coordinati.

Ti accorgi che se non ti affanni ad insegnare lui apprende lo stesso.

Ti accorgi che si calma quando sente la tua voce e le tue braccia che lo cullano con lo stesso ritmo del suo pianto e dei suoi movimenti.

Ti accorgi che sei fai silenzio dentro e fuori di te, lui stesso ti fa capire di cosa ha bisogno.

Capisci che è inutile preoccuparsi ora se avrà o no difficoltà domani, perché Tu sei ciò di cui il tuo bimbo ha bisogno e stai facendo già ciò che gli serve.





La Mamma è competente

La mamma ha deciso di non allattare più al seno e la bambina ha iniziato a strillare in continuazione. La bambina non fa un passo senza la sua mamma e si dispera quando la lascia a casa con la nonna perché deve andare al lavoro. Il bambino fa i capricci e la sua mamma lo punisce. La bambina non si vuole addormentare nel suo letto e si rifiuta di mangiare.

Affrontiamo la vita e le cose “difficili” a modo nostro. Vorremmo superarle presto, ma non ne riusciamo a venirne a capo e per quanto riflettiamo, non troviamo soluzioni alternative a quelle che adottiamo di solito.

Ci disperiamo, ci sentiamo in colpa, ci arrovelliamo dentro i nostri continui pensieri.

Gli amici, i parenti, non interpellati, iniziano a dare consigli, riportando esempi concreti su cosa ha funzionato per loro. Poi ci sono le indicazioni del pediatra e quelle che troviamo su internet.
Ma non troviamo “fuori di noi” le risposte di cui abbiamo bisogno, semplicemente perché noi siamo diversi: non esiste il “metodo” che va bene per tutti. Anzi possiamo sentirci non adeguate perché altri, meglio di noi, sono in grado di trovare le soluzioni.

C’è una parte profonda di noi che non viene influenzata dalle parole lette e ascoltate.   

Le mamme sono uniche come unici sono i loro bambini e la relazione che li lega. Quindi le risposte e le soluzioni non sono quelle degli altri, perché siamo diversi e le situazioni sono diverse.

Facciamo esperienza che molte situazioni o conflitti si risolvono in modo semplice e naturale, nel tempo, dentro le relazioni.

Facciamo esperienza che dentro di noi abbiamo già le risorse, le energie, la capacità per affrontare tutte le situazioni che si presentano. 

Per questo non abbiamo bisogno di consigli, ma solamente di qualcuno che ci sostenga senza giudicare, che ci rassicuri che tutto va bene, che ci dia fiducia, che ci aiuti a trovare la nostra soluzione.

Facciamo esperienza che le cose più importanti che facciamo con i nostri bambini non le facciamo con le parole, soprattutto se sono le parole e i consigli degli altri.
   

     

Il bambino non è la sua diagnosi

La Mamma decide di fare visitare il bambino dal Neuropsichiatra Infantile, consigliata prima dal pediatra e poi dalle maestre. Dopo alcuni incontri viene formulata una diagnosi.

A che serve la diagnosi?. È sempre necessaria averla?

Alcune diagnosi sono indubbiamente difficili da accettare, da sopportare.

La diagnosi, in qualche modo, in alcuni casi, indirizza verso determinati percorsi: il bambino ora deve fare questo tipo di terapie e di accertamenti. Strade già percorse da altri.

La diagnosi permette uno scambio veloce di informazioni tra gli operatori che interagiscono con il bambino e richiama programmi precedentemente svolti per altri bambini con la stessa diagnosi: il bambino ha il disturbo …, quindi deve fare questo tipo di terapia…

Indubbiamente un nome (la diagnosi) dato ad un insieme di sintomi o difficoltà, non descrive affatto il bambino, la sua storia o il comportamento che ha nei vari contesti. Né descrive le sue relazioni, che influenzano il bambino e l’espressività del suo disturbo.

A volte c’è il rischio di ricondurre ogni difficoltà e ogni comportamento osservato alla diagnosi formulata: “il bambino ha le stereotipie perché è autistico” piuttosto che “il bambino ha le stereotipie perché ancora non gli abbiamo insegnato un altro modo per chiedere l’acqua”.

A volte ci proteggiamo dietro ad una supposta diagnosi per spiegare un comportamento del bambino, che tuttavia non dipende da lui: “il bambino non collabora, perché ha un disturbo dell’attenzione” piuttosto che “il bambino non collabora perché non sono ancora riuscito a motivarlo”

A  volte cerchiamo una diagnosi e non interveniamo se prima non ce l’abbiamo, quando in realtà il bambino ha comunque delle difficoltà che orientano di per se verso un aiuto mirato, una guida.

A volte vogliamo nascondere la diagnosi per evitare che gli altri si fanno un idea sbagliata del bambino.

A volte dimentichiamo la diagnosi e la rimuoviamo.

A volte ci dimentichiamo che due bambini sono diversi anche se hanno la stessa diagnosi: “quel bambino ha fatto questa terapia e allora anche il mio bambino deve fare la stessa cosa, lo stesso metodo, lo stesso protocollo”.

A volte facciamo di tutto con il bambino per mostrare che non c’è quella diagnosi.

In tanti modi la diagnosi ci può condizionare e ci condiziona… Non dico di non tenerne conto. Dico solamente che il bambino non è la sua diagnosi, il bambino è quello che è, è quello che fa.
A prescindere dalla diagnosi.



    

Punti fermi sull'autismo...

L’autismo non è un mistero, lo conosciamo. Anzi, i bambini con autismo non sono un mistero. Basta osservarli, giocarci insieme, per conoscerli.

L’intervento precoce è possibile anche se non c’è la diagnosi: un bambino che non riesce a comunicare lo aiuto a prescindere dalla diagnosi che ha o che sarà fatta.

L’ABA è un metodo efficace, ma non è l’unico.

I bambini con autismo sono prima di tutto bambini, che possono avere esigenze e desideri come tutti i bambini. Non pensiamo di fare rientrare tutto nel disturbo o in un intervento comportamentale.

La diagnosi è clinica, non c’è nessun esame strumentale o genetico che sostituisce le visite ai fini della diagnosi.

La famiglia è fondamentale, sia per conoscere il bambino che per aiutarlo.

Non esistono medicine specifiche che possono curare l’autismo.

Posso conoscere tutte le tecniche comportamentali per trattare il bambino, ma se fallisco la relazione il mio intervento non è efficace.

La difficoltà di comunicazione non è solo del bambino, ma dell’ambiente che non ha ancora adottato un sistema di comunicazione adatto al bambino.

La terapia deve essere al servizio del bambino, per migliorare la sua qualità di vita.

La lista è incompleta...Aggiungete voi i vostri punti fermi

    

Non sono autistici

I casi di autismo sembrano decisamente aumentati, non so dirvi il perché. Ci sono tuttavia dei bambini, a cui è stata fatta questa diagnosi, che “mi sembrano tutto” tranne che autistici.

Sono bambini che magari non si girano quando li chiami, o che non ti guardano, o che saltellano sulle punte, che si agitano facilmente, che giocano poco insieme agli altri, che non indicano, o che non hanno ancora sviluppato il linguaggio, che mettono le macchinine in fila, che si buttano a terra se non ottengono quello che vogliono, che sono inibiti, che sono poco flessibili…e che non sono comunque autistici. In un test o in una scheda compilata hanno il punteggio che soddisfa i criteri, ma non lo sono. Il tempo lo conferma.

Lo vedi, lo senti, che non lo sono. 

Perché qualche volta ti hanno anche fugacemente guardato, come per osservare la tua reazione, qualche volta ti hanno portato anche un gioco, solo per mostrarlo, qualche volta hanno cercato in situazioni nuove lo sguardo della mamma, qualche volta hanno fatto “ciao” con la manina e qualche volta hanno imitato la mamma durante una canzoncina. 

Piccole cose..fatte comunque con una qualità tale da capire che non lo sono. 

E il tempo lo conferma.


Ma a volte la diagnosi viene comunque fatta, anche quando non c’è. E potete capire le conseguenze… 

Non ce la faccio

Ti hanno spiegato cosa fare per aiutare il tuo bambino, cosa è meglio per lui, quali attività devi privilegiare. Molte cose le avevi capite già da sola, le avevi lette o le avevi viste fare.

Ma ci sono momenti in cui proprio non ce la fai a dedicarti interamente a lui come vorresti. Perché non c’è solo il tuo bambino, perché c’è una famiglia, perché c’è il tuo lavoro, perché ci sono i vicini e i parenti, ci sono i compiti degli altri figli, e non c’è abbastanza tempo.

Ti senti in colpa se ti dedichi del tempo, senti su di te soprattutto gli sguardi e i giudizi di chi non ti conosce abbastanza. Non ti è sempre facile trovare l’equilibrio necessario: dedichi l’anima e il cuore a chi ha più bisogno e non vuoi tralasciare i bisogni, i desideri, le esigenze di tutti gli altri.

E senti su di te il peso di questa responsabilità, senti di non aver fatto abbastanza o di non riuscire a fare abbastanza. Pensi che quello che non fai adesso non lo puoi fare in seguito. A volte Ti senti sola, non capita e non sostenuta. Hai fatto magari delle rinunce, e nessuno se ne è accorto. O stai rinunciando a qualcosa che ti sta a cuore: il lavoro, il tuo tempo libero, i tuoi desideri.

E allora trova il tempo di riflettere, ogni giorno, per capire cosa stai facendo, cosa è meglio fare e perché lo fai. Cerca di guardare oltre le apparenze delle cose, guarda all’essenziale, a ciò che è veramente importante. 

Concediti di avere dei desideri solo tuoi e non aspettare domani per realizzarli. Fai ogni giorno un passo, anche piccolo, che ti fa sentire felice e realizzata. Il tuo bambino non ti chiede sacrifici e rinunce, lui ti vuole, contenta, serena, tollerante, paziente, e per esserlo devi prenderti cura di Te.
Accetta questo momento così com’è.




La mamma prende una decisione

F. è un bambino con un ritardo dello sviluppo. La mamma lavora in un negozio, mattina e pomeriggio, e ha poco tempo libero. Pensa lei ad accompagnare i bambini a scuola, a riprenderli e a preparare il pranzo. Come tante mamme si trova alla fine della giornata esausta e con qualche senso di colpa.
In terapia F. gioca e si esercita con gli incastri, con attività come infilare e sfilare, abbottonare e sbottonare, con l’obiettivo, a più lungo termine, di renderlo più autonomo nel vestirsi.
A casa F. non vuole “fare niente” con la mamma, si rifiuta, vuole continuare a stare davanti al tablet o alla tv, è una lotta che alla fine non porta a niente. In realtà gli incontri con la mamma, finalizzati a migliorare le autonomie, sono occasionali, estemporanei, non pensati.
Dopo un po’ di tempo la mamma di F. comprende di essere impaziente nei confronti di F., anche perché è spesso stanca e ha poco tempo da dedicare ai suoi hobby.
Allora prende una decisione.
Decide di fare un elenco delle sue priorità e si accorge che è pochissimo il tempo che gli dedica. Per questo motivo prova ad organizzare diversamente le sue giornate, cerca l’aiuto dei nonni e del marito, e riesce a ritagliare degli spazi da dedicare esclusivamente a sé e a F.    
 Ben presto si accorge della differenza.
Quello che aiuta F. a impegnarsi a casa sono essenzialmente due cose che prima mancavano:
la serenità della mamma e un tempo costante dedicato esclusivamente a lui.
È stato possibile in questo modo creare una routine, un’abitudine, un riferimento costante. E le volte in cui F. non vuole proprio impegnarsi a fare le attività, è la mamma che le completa, che le inizia, o che addirittura le svolge per lui.
In questo modo crea l’abitudine, cioè l’attività in qualche modo viene comunque svolta, solo dopo c’è il premio.
L’abitudine contiene delle costanti, che proprio perché si ripetono facilitano la comprensione e l’esecuzione delle attività.
Nel tempo F. comprende cosa si può aspettare dall’attività, il tempo che occorre, la certezza del premio.
F. si impegna sempre di più e i risultati anche a casa si vedono.

Il premio ben presto diventa l’attività stessa perché la sua Mamma non ha altri pensieri se non quello di stare con lui e dedicargli il suo tempo. 

La visita del neonato

Quando vedo il neonato che guarda la sua mamma, la cerca con lo sguardo e le sorride, non ho bisogno di valutare la funzione visiva, la fissazione e l’inseguimento visivo, perché lui è avanti.
Quando vedo il neonato che piange, e si consola immediatamente se preso in braccio dalla mamma, capisco che si è ben adattato all’ambiente.
Quando vedo il neonato che scalcia con le gambette e muove ogni singolo dito del suo piedino, non ho bisogno di vedere i suoi riflessi.
Quando vedo il neonato che mi guarda con un’espressione diversa rispetto a quando guarda la sua mamma, mi rallegro e capisco che già interagisce da tempo.
Quando vedo il neonato che emette dei vocalizzi di risposta alle mie “domande”, capisco che la mamma ci gioca tanto.
Quando vedo il neonato protestare con il pianto perché è lasciato solo, capisco che sta apprendendo il potere della comunicazione.  
Quando vedo il neonato che si porta le mani in bocca capisco che si sta preparando ad afferrare gli oggetti.
Quando vedo il neonato che mi esce la lingua dopo che gli ho fatto vedere la mia, so che sarà in grado di imitare.
Quando vedo il neonato che gira la testa verso le voci e i rumori capisco che ci sente.

Quando vedo lo sguardo che ha la mamma per il suo bambino, capisco che non occorrono consigli.

Non possiamo misurare tutto

G. è un bambino di 7 anni con un disturbo dello spettro autistico, frequenta la prima elementare. Ha due fratelli più grandi di lui, ama giocare all’aria aperta, corre e si sporca in continuazione. In classe spesso disturba attraverso grida continue.
I genitori vengono per questo richiamati e si decide insieme di avviare un intervento ABA. La procedura prevede inizialmente un’analisi dettagliata del comportamento, occorre avere un quadro iniziale di base: quante volte grida e con quale intensità, quando lo fa, cosa succede prima e cosa dopo. Si prendono in esame moltissime variabili che possono scatenare le grida: luci, orari, possibile richiesta di attenzione, la confusione della classe, la stanchezza, il tipo di compito, ecc. Si compilano tabelle, schede e grafici. Il comportamento in oggetto è sviscerato in maniera molto approfondita, e tutte le variabili di antecedenti e conseguenze del comportamento sono state registrate.
A questo punto la sua insegnante di sostegno è pronta a mettere in pratica tutte le varie procedure suggerite per avere il controllo educativo e il controllo delle variabili che scatenano le grida. Non solo, segna in una tabella quante volte il bambino grida in un arco di 5 minuti. In questo modo è possibile registrare i cambiamenti del comportamento in oggetto.
Lavoro preciso, tutto è misurato.
Dopo circa una settimana di intenso lavoro l’insegnante di sostegno si deve assentare per motivi di salute e viene temporaneamente sostituita da un’assistente.
L’assistente è all’oscuro di tutto il lavoro avviato. Lei conosce poco G., ma il suo primo approccio è delicato e graduale. Con fare dolce, calmo e fermo dirige G. al completamento del suo compito. Per un’ora G. esegue i suoi compiti e non si sente gridare, nemmeno una volta…



   

Non fermiamoci alle etichette

Quando incontriamo le famiglie e visitiamo i bambini, noi operatori, spesso finiamo  per fare riferimento alle nostre categorie e alle nostre conoscenze. Cataloghiamo, classifichiamo i comportamenti, diamo delle etichette, diamo delle spiegazioni dei comportamenti che sono sempre le stesse. Facciamo diagnosi, indirizziamo per eventuali approfondimenti e suggeriamo un percorso riabilitativo. Tutto giusto, tutto fila.
Ma basta una notizia, basta un comportamento osservato per arrivare a una conclusione?
Sappiamo che non può essere così.
Sappiamo che per conoscere il bambino e la sua storia occorre del tempo. È vero, la nostra esperienza ci permette di vedere più in là, ma vediamo sempre le stesse cose: come parla, cosa comprende, come si muove, come gioca. 

Per conoscerlo non basta.

E allora fermiamoci, diamogli tempo, interessiamoci, giochiamo e mangiamo insieme a lui, raccontiamogli una storia, facciamoci una passeggiata, accompagniamolo in bagno, laviamoci le mani insieme, abbracciamolo, coccoliamolo, guardiamo il mare e il cielo, raccogliamo un fiore, cantiamo.

Il bambino non deve fare niente, nessuna prestazione, nessuna. Lui deve solo provare stupore.

È possibile?!


Sentiamo cosa desidera, ascoltiamolo,… solo così possiamo conoscerlo e capire che c’è anche un tempo per gli abbracci.     

Il bambino è autonomo, ma così non comunica

I bambini con disturbo dello spettro autistico, spesso, ci fanno capire cosa vogliono, ma non utilizzano modalità chiare per la richiesta, come un gesto o una parola. In altri casi, invece, non comunicano, non hanno ancora sviluppato l’intenzionalità comunicativa.
L’intenzionalità comunicativa consiste nell’essere “consapevole” degli effetti della comunicazione sulle persone, e ciò si vede dal fatto che il bambino ripete i suoi tentativi di comunicazione, quando la persona a cui è rivolto il messaggio non ha ascoltato o non ha agito per soddisfare la sua richiesta.
Le prime forme di richiesta sono sicuramente rivolte a soddisfare dei bisogni come quello della fame. Ed è a casa che effettivamente queste richieste possono essere effettuate più frequentemente.
Spesso capita che a casa il bambino con disturbo dello spettro autistico si prende da solo le cose che desidera o di cui ha bisogno. Si prende da solo l’acqua e le merendine quando ha fame e questo è un segno di autonomia.
Ma se vogliamo “costruire” l’intenzionalità comunicativa o vogliamo modellare nel bambino forme di comunicazione più chiare, è opportuno partire proprio dai suoi bisogni come il cibo, per cui il bambino è più motivato.
La comunicazione è una cosa semplice in sé, faccio qualcosa come un gesto o pronuncio una parola, come ho visto fare agli altri, per ottenere l’acqua o la merendina.

Se il bambino riuscisse a comunicare lo farebbe già spontaneamente.

Per questo motivo non dobbiamo rendergli la cosa difficile, se no “scappa”. Non dobbiamo “costringerlo” a ripetere bene, a guardarmi, a fare …

Deve poter ottenere facilmente quello che vuole. “Pretendiamo” da lui qualcosa che ha una valenza comunicativa, ma che può fare senza particolari sforzi.

Può aiutare non concedere la merendina intera, ma a pezzettini, così si può stare un tempo più lungo insieme. Se la merendina, invece, il bambino se la prende  e se la mangia da solo perdiamo un’occasione per stare insieme e per stimolare la comunicazione.
  
Non è semplice soprattutto all’inizio, perché questa situazione costringe genitore e bambino a confrontarsi con qualcosa come la comunicazione che non è stata acquisita dal bambino in modo spontaneo e che quindi richiede un insegnamento specifico.
È bello che il bambino sia autonomo, ma se vogliamo invece aiutarlo nella comunicazione è opportuno iniziare presto a “costruire” l’intenzionalità comunicativa, rinunciando a un po’ della sua autonomia.




A scuola non è cambiato niente.

Ci sono tante mamme che hanno capito cosa hanno i loro figli e come stanno le cose prima che glielio spieghi io. Mi ritrovo semplicemente a confermare ciò che loro hanno avuto modo già di constatare.
Spesso, la difficoltà di entrambi è come farlo capire a tutti gli altri, in particolare alle insegnanti. La mamma a scuola non viene ascoltata o viene considerata ansiosa e iperprotettiva. Oppure si deve giustificare per qualcosa di cui non è direttamente responsabile. Potremmo fare tanti esempi.   
Le insegnanti hanno tanti bambini e non possono dedicarsi a uno in particolare adattando pure la didattica. (questa è la loro principale motivazione)
Non lo so, ho qualche dubbio.
Perché hanno comunque il tempo di mettere un brutto voto per gli errori di ortografia di un bambino con disortografia, perché interrogano sulle tabelline il bambino con disacalculia, perché al bambino con difficoltà di attenzione gli dicono che non sta attento, perché se il bambino è depresso continuano a pensare ai compiti che non ha svolto, ecc…Lo so, ci sono tanti altri esempi positivi. Mi scuso per la generalizzazione.

E allora cosa fare.

C’è chi risolve cambiando scuola, avendo poi la conferma che non aveva ogni torto. C’è chi insiste a cercare il dialogo per spiegare come stanno le cose e quali sono le difficoltà del bambino.

Mi dispiace, ma a volte ci si confronta e si resta sulle proprie posizioni. Non si cambia realmente atteggiamento nei confronti del bambino, cosa che potrebbe a volte anche bastare…
   
    

   

La terapia non è l'unica alternativa

Alcuni bambini, in determinati periodi della loro vita, possono presentare lievi difficoltà nel comportamento o un lieve ritardo motorio o del linguaggio.

Per questi motivi la mamma può decidere di fare visitare il bambino.
Se qualche professionista esprime delle perplessità o addirittura assegna al bambino un’etichetta diagnostica, ecco che si mette in moto un percorso in cui la terapia sembra essere l’unica alternativa possibile.
Le insegnanti, il pediatra, o in ospedale, spingono perché il bambino faccia la terapia.

E una volta iniziata, la terapia, non è facile uscirne. “C’è sempre qualcosa” che giustifica ancora il trattamento riabilitativo.

La mamma si può trovare ad affrontare anche visioni diverse, approcci diversi: c’è chi sostiene che non serve iniziare o proseguire la terapia, perché il bambino è intelligente, perché le sue difficoltà verranno superate tranquillamente a casa o a scuola e chi invece ritiene di iniziare o di proseguire perché al test il bambino non ha soddisfatto pienamente determinati criteri.

Non è certamente facile per una mamma affrontare queste situazioni.

Riuscire a restare serena e sicura. 

C’è chi si sente rassicurata quando il bambino fa la terapia, anche se si rende conto che il bambino sta progredendo bene e a casa o a scuola fa già le esperienze necessarie per un sano sviluppo.

In ogni caso,
qualunque percorso viene intrapreso, è compito di noi riabilitatori informare la famiglia, con i tempi e i modi necessari, su come stanno le cose e su che cosa possiamo aspettarci, e indagare insieme le eventuali paure, preoccupazioni e convinzioni che rendono difficile l'eventuale distacco dalla terapia.
Indubbiamente per la Mamma conoscere il suo bambino, essere rassicurata sui progressi che fa e soprattutto constatarlo, è motivo di serenità.
Ma capisco che riuscire a mettere da parte il passato, le parole di perplessità o le diagnosi formulate, per godere pienamente del bambino e delle cose meravigliose che fa non sempre è facile.








Grazie Maestra

 Giovanni ha 6 anni e mezzo e frequenta la prima elementare. È un bambino intelligente e vivace. Ascolta le storie e risponde alle sollecitazioni dell’insegnante, ha molta fantasia, intuisce significati “nascosti”, spiega le conclusioni delle favole. Si vede che è sveglio, non c’è bisogno di alcun test o chissà quali prove per dimostrarlo.
A gennaio Giovanni legge le vocali, le altre lettere no, non vogliono proprio entrare nella sua testa.
Messo di fronte alla P, alla T, alla M, le copia benissimo, ma fa tanta fatica a riconoscerle, a leggerle. A casa la mamma, tra i tanti impegni, riesce comunque a dedicargli del tempo per i compiti.

L’insegnante è serena

si è accorta, aspetta il momento adatto per ascoltare e parlare con la mamma. Ha capito che Giovanni è intelligente, si ogni tanto si distrae, ma come tutti i suoi compagni. Allora decide di rallentare, perché c’è tempo. Decide di riprendere con le lettere dell’alfabeto, coinvolgendo tutti i bambini. 

Intuisce nuove opportunità.

Passano le settimane e Giovanni inizia a memorizzare, ma è lento nel rievocare il suono della P, della T, ecc.
Non ci sono confronti, non c’è nessun traguardo da raggiungere prima di altri. Siamo in prima elementare.

È una situazione naturale.

Non ci si accorge affatto che stanno aspettando Giovanni.

La storia può avere diversi finali, ma l’inizio fa la differenza. Che bello. Non ci sono etichette, non ci sono diagnosi, non ci sono confronti, giudizi.


  

"Fermare" il bambino con disturbo del linguaggio?

Ho conosciuto e conosco tanti bambini intelligenti che hanno avuto e hanno importanti difficoltà di linguaggio.

Ognuno ha una sua storia, bella e unica.

Tra questi, chi in terza sezione della scuola materna ha ancora un linguaggio con importanti difficoltà espressive o nella formulazioni di frasi corrette e complete, incontrerà sicuramente difficoltà con l’apprendimento della lettura e della scrittura. È una constatazione.
In questi casi è possibile fermare il bambino per un altro anno alla scuola materna, per arrivare più pronto alla scuola elementare? Cosa può succedere invece se non viene fermato? Viene “traumatizzato” dal fatto di non poter seguire i suoi attuali compagni?

Ci sono in gioco diverse variabili.

Secondo alcuni, più spesso gli insegnanti, il bambino deve andare avanti, perché è sveglio, è intelligente e copia bene. Secondo altri, in genere gli specialisti, è opportuno fermarlo, perché si troverà ad “inseguire” e spesso gli insegnanti non aspettano.

Quando il bambino viene esposto alle prime lettere, per leggerle deve accedere ai suoni della lingua che fatica ancora a pronunciare bene o che non erano percepiti e pronunciati correttamente in passato.

Deve stimolare un processo in cui ha difficoltà o è più lento.
  

E allora può accadere che al bambino vengono presentate troppe lettere in poco tempo e non riesce a memorizzarle, o per ogni lettera deve addirittura apprendere i 4 caratteri.

Non posso sapere cosa succederà, ma spesso, qualunque decisione viene presa, è soprattutto l’atteggiamento di  noi adulti che influenza il percorso scolastico.

Il bambino vive quello che vivono genitori e insegnanti.

Quando un bambino in prima elementare sbaglia le doppie non stiamo nemmeno a sottolinearlo e il bambino prosegue tranquillo il suo cammino scolastico, quando, invece, un bambino a natale non ricorda come si leggono le lettere presentate, ecco che può nascere il problema.

Ripeto, il problema nasce a secondo di come viene vissuta e interpretata dagli adulti la difficoltà del bambino.

Forse quando si è preparati (anche se non si può essere mai del tutto preparati) si affronta con più serenità la situazione.

Noi adulti, in fondo, quando dobbiamo imparare a fare qualcosa di nuovo e di difficile, ci  prendiamo il tempo necessario, e comunque ci stanchiamo, ci fermiamo, rimandiamo e poi riprendiamo. E ci arrabbiamo se qualcuno ci fa notare che siamo lenti e ci disperiamo se ancora siamo gli ultimi, se ancora non abbiamo imparato.

E allora, perché non concedere il tempo che serve anche ai bambini?  
   
  
   


   

"Lasciami la mia goffaggine"


Il bambino arriva ad acquisire determinate funzioni, come ad esempio la lettura e la scrittura attraverso un percorso che parte da molto lontano. In questo percorso le varie acquisizioni sono collegate fra di loro: pensiamo al percorso che porta alla scrittura o alla capacità di copiare una lettera, partendo dai primi scarabocchi.
Se ci limitiamo solo all’aspetto grafico, osservando i quaderni della scuola materna e quelli dei primi anni di scuola elementare, possiamo apprezzare l'evoluzione delle abilità grafiche fino alla scrittura in corsivo.

Ovviamente, nel caso della scrittura, non sono in gioco solo abilità grafiche, ma anche le abilità di motricità fine, visuo percettive, visuo costruttive, visuo spaziali.

Nei bambini con difficoltà dello sviluppo questo percorso non sempre è lineare, per cui può accadere che una prestazione come la scrittura sia acquisita, anche se le abilità che la precedono nel percorso evolutivo non sono del tutto adeguate, 

o meglio non rispecchiano i nostri parametri di “normalità”.

“Il bambino scrive discretamente in corsivo, ma ancora la rappresentazione grafica dello schema corporeo è immatura”, “Il bambino copia le lettere in corsivo, ma non riesce a fare il puzzle”.

Quando è acquisita una prestazione, come la scrittura o come la lettura, che sta alla fine di un percorso possiamo dare per acquisto tutto ciò che è precedente? Se un bambino non ha una bella grafia dobbiamo iniziare nuovamente tutto il percorso che ha portato alla scrittura? Se il bambino è goffo, e non ha una bella scrittura dobbiamo far fare tanta psicomotricità? O ancora dobbiamo necessariamente “togliergli” la sua goffaggine, così impara a scrivere bene? Non basta esercitarsi a scrivere meglio senza pretendere la precisione assoluta?

Cosa ne pensate? Sto semplificando?

Dico queste cose perché per alcuni bambini, che sono inseriti in un percorso di riabilitazione e di valutazioni, sembra che c’è sempre qualcosa da dover fare, da dover raggiungere.

Perché il bambino al test APCM ha avuto una caduta nell’area della motricità fine

Perché non è proprio bravo a fare i puzzle

Perché ancora non si sa allacciare le scarpe

Perché non sa acchiappare la palla.

Ma lo stesso bambino ora scrive e legge ciò che comprende. 

E' avanti

E’ bravo.  Diglielo che è bravo, non solo con le parole. Diglielo che non c’è bisogno di fare ancora terapia e che c'è la maestra che lo aiuta e che e ci sono mamma e papà.



Non esiste il metodo per tutto

I bambini che intraprendono un percorso riabilitativo vengono in genere sottoposti a una serie di incontri, visite e osservazioni, al fine di programmare il tipo di intervento. L’intervento riabilitativo è un “vestito fatto su misura” che si va modificando nel tempo in base alle risposte che da il bambino. L’intervento dovrebbe tenere conto prima di tutto del bambino, delle sue esigenze e desideri, dell’età e del percorso già fatto, delle risorse disponibili nel contesto e nel territorio in cui il bambino vive e naturalmente della sua famiglia.

Sono, quindi, diversi gli elementi che influenzano le nostre scelte. Non ci può essere niente di prestabilito. Si cerca la soluzione più adatta per ciascun caso.

Nel mondo della riabilitazione esistono indubbiamente diverse visioni, diverse teorie, diversi modi di spiegare i disturbi dello sviluppo e quindi diversi approcci e diverse metodologie di intervento. Alcuni sono ritenuti efficaci, altri no.

Per un genitore almeno in una fase iniziale può essere difficile cogliere le differenze che esistono tra i vari approcci e quindi riuscire a districarsi. Semplicemente perché non è un tecnico, perché ha un’esperienza limitata, perché è coinvolto.

Chi si occupa di riabilitazione sa benissimo che non esiste il metodo che funziona per tutto, né che ogni cosa deve essere affrontata facendo riferimento a quel metodo.
È evidente, il mio è un punto di vista, ma è proprio questo il rischio che in alcune situazioni ho intravisto: il bambino “diventa” una scheda compilata, un programma riabilitativo, una serie di obiettivi da raggiungere, entro tempi determinati.

Perché così dice il metodo.

Come se si avesse una visione parziale del problema, e non si tenesse conto così di tutte le variabili in gioco che ho elencato.

A volte non è il metodo sbagliato in se, ma eventualmente la sua applicazione rigida.
  
Non è facile districarsi in questo mondo e capisco che non sono granché di aiuto, la mia è solo un’indicazione. 
Sicuramente l’esperienza, la conoscenza, la serenità e l’affidarsi e prima di tutto il riuscire ad ascoltare il vostro bambino vi permetteranno di fare il percorso più adatto.

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