Alla Mamma del bimbo prematuro

Il bimbo è nato prematuro, in maniera inaspettata.

All’inizio si è dovuto impegnare tanto per adattarsi all’ambiente, quando era dentro la tua pancia era protetto e i suoni erano dolci e lievi. Il suono più dolce era certamente la tua voce che già riusciva a distinguere. C’è stato il ricovero con le cure, ma anche con i rumori infernali dei monitor che il bimbo non poteva tollerare. 
Tu, che dovevi realizzare ancora cosa era successo, ti trovavi in un ambiente nuovo a dover guardare e toccare il tuo bambino da lontano.

Impossibile descrivere le tue emozioni e  tuoi pensieri.

Giunti a casa ti sei preoccupata di ridurre gli stimoli che lo disturbavano. Il tuo bimbo, ora, può finalmente sentire, ancora più forte, con più continuità, il calore delle tue braccia.

Lo accompagni nello sviluppo con il contatto, con la tua voce, con le tue braccia, con i tuoi sorrisi, con tutta te stessa. Quello che fai è ciò che gli serve: se piange lo culli e lo rassicuri o provi a dargli da mangiare, cerchi il suo sguardo e il tuo volto si riempie di gioia quando lui ti sorride. 
Tutto avviene in modo spontaneo e fai la cosa giusta al momento giusto e se ti distrai un po’ torni subito dopo a dargli l’attenzione e la tua presenza. 
Il bimbo è più sereno e può dedicarsi a se stesso e agli altri con più continuità.

A due mesi di età corretta, il suo sguardo è vivace, certo si distrae un po’, ma Tu sei lì per ricercarlo e per farti seguire e per cercare un sorriso. Non controlla ancora bene i movimenti e per questo lo aiuti semplicemente contenendolo tra le tue braccia.

Ti accorgi che all’inizio non servono giocattoli perché gli basti Tu.

Ti accorgi che non puoi insegnargli i movimenti, lui impara da solo grazie al fatto che è curioso e si muove per entrare in contatto con Te, con le persone e con le cose.

Ti accorgi che se lo lasci libero di sperimentare lui impara prima e meglio.

Ti accorgi che non  serve e non puoi anticipare i tempi, lui ha bisogno di tempo per provare e per imparare. Anticipare significa fargli fare qualcosa per cui non è ancora pronto, per cui rischia di non imparare bene.

Ti accorgi che i movimenti che fa sono sempre più precisi e coordinati.

Ti accorgi che se non ti affanni ad insegnare lui apprende lo stesso.

Ti accorgi che si calma quando sente la tua voce e le tue braccia che lo cullano con lo stesso ritmo del suo pianto e dei suoi movimenti.

Ti accorgi che sei fai silenzio dentro e fuori di te, lui stesso ti fa capire di cosa ha bisogno.

Capisci che è inutile preoccuparsi ora se avrà o no difficoltà domani, perché Tu sei ciò di cui il tuo bimbo ha bisogno e stai facendo già ciò che gli serve.





La Mamma è competente

La mamma ha deciso di non allattare più al seno e la bambina ha iniziato a strillare in continuazione. La bambina non fa un passo senza la sua mamma e si dispera quando la lascia a casa con la nonna perché deve andare al lavoro. Il bambino fa i capricci e la sua mamma lo punisce. La bambina non si vuole addormentare nel suo letto e si rifiuta di mangiare.

Affrontiamo la vita e le cose “difficili” a modo nostro. Vorremmo superarle presto, ma non ne riusciamo a venirne a capo e per quanto riflettiamo, non troviamo soluzioni alternative a quelle che adottiamo di solito.

Ci disperiamo, ci sentiamo in colpa, ci arrovelliamo dentro i nostri continui pensieri.

Gli amici, i parenti, non interpellati, iniziano a dare consigli, riportando esempi concreti su cosa ha funzionato per loro. Poi ci sono le indicazioni del pediatra e quelle che troviamo su internet.
Ma non troviamo “fuori di noi” le risposte di cui abbiamo bisogno, semplicemente perché noi siamo diversi: non esiste il “metodo” che va bene per tutti. Anzi possiamo sentirci non adeguate perché altri, meglio di noi, sono in grado di trovare le soluzioni.

C’è una parte profonda di noi che non viene influenzata dalle parole lette e ascoltate.   

Le mamme sono uniche come unici sono i loro bambini e la relazione che li lega. Quindi le risposte e le soluzioni non sono quelle degli altri, perché siamo diversi e le situazioni sono diverse.

Facciamo esperienza che molte situazioni o conflitti si risolvono in modo semplice e naturale, nel tempo, dentro le relazioni.

Facciamo esperienza che dentro di noi abbiamo già le risorse, le energie, la capacità per affrontare tutte le situazioni che si presentano. 

Per questo non abbiamo bisogno di consigli, ma solamente di qualcuno che ci sostenga senza giudicare, che ci rassicuri che tutto va bene, che ci dia fiducia, che ci aiuti a trovare la nostra soluzione.

Facciamo esperienza che le cose più importanti che facciamo con i nostri bambini non le facciamo con le parole, soprattutto se sono le parole e i consigli degli altri.
   

     

Il bambino non è la sua diagnosi

La Mamma decide di fare visitare il bambino dal Neuropsichiatra Infantile, consigliata prima dal pediatra e poi dalle maestre. Dopo alcuni incontri viene formulata una diagnosi.

A che serve la diagnosi?. È sempre necessaria averla?

Alcune diagnosi sono indubbiamente difficili da accettare, da sopportare.

La diagnosi, in qualche modo, in alcuni casi, indirizza verso determinati percorsi: il bambino ora deve fare questo tipo di terapie e di accertamenti. Strade già percorse da altri.

La diagnosi permette uno scambio veloce di informazioni tra gli operatori che interagiscono con il bambino e richiama programmi precedentemente svolti per altri bambini con la stessa diagnosi: il bambino ha il disturbo …, quindi deve fare questo tipo di terapia…

Indubbiamente un nome (la diagnosi) dato ad un insieme di sintomi o difficoltà, non descrive affatto il bambino, la sua storia o il comportamento che ha nei vari contesti. Né descrive le sue relazioni, che influenzano il bambino e l’espressività del suo disturbo.

A volte c’è il rischio di ricondurre ogni difficoltà e ogni comportamento osservato alla diagnosi formulata: “il bambino ha le stereotipie perché è autistico” piuttosto che “il bambino ha le stereotipie perché ancora non gli abbiamo insegnato un altro modo per chiedere l’acqua”.

A volte ci proteggiamo dietro ad una supposta diagnosi per spiegare un comportamento del bambino, che tuttavia non dipende da lui: “il bambino non collabora, perché ha un disturbo dell’attenzione” piuttosto che “il bambino non collabora perché non sono ancora riuscito a motivarlo”

A  volte cerchiamo una diagnosi e non interveniamo se prima non ce l’abbiamo, quando in realtà il bambino ha comunque delle difficoltà che orientano di per se verso un aiuto mirato, una guida.

A volte vogliamo nascondere la diagnosi per evitare che gli altri si fanno un idea sbagliata del bambino.

A volte dimentichiamo la diagnosi e la rimuoviamo.

A volte ci dimentichiamo che due bambini sono diversi anche se hanno la stessa diagnosi: “quel bambino ha fatto questa terapia e allora anche il mio bambino deve fare la stessa cosa, lo stesso metodo, lo stesso protocollo”.

A volte facciamo di tutto con il bambino per mostrare che non c’è quella diagnosi.

In tanti modi la diagnosi ci può condizionare e ci condiziona… Non dico di non tenerne conto. Dico solamente che il bambino non è la sua diagnosi, il bambino è quello che è, è quello che fa.
A prescindere dalla diagnosi.



    

Punti fermi sull'autismo...

L’autismo non è un mistero, lo conosciamo. Anzi, i bambini con autismo non sono un mistero. Basta osservarli, giocarci insieme, per conoscerli.

L’intervento precoce è possibile anche se non c’è la diagnosi: un bambino che non riesce a comunicare lo aiuto a prescindere dalla diagnosi che ha o che sarà fatta.

L’ABA è un metodo efficace, ma non è l’unico.

I bambini con autismo sono prima di tutto bambini, che possono avere esigenze e desideri come tutti i bambini. Non pensiamo di fare rientrare tutto nel disturbo o in un intervento comportamentale.

La diagnosi è clinica, non c’è nessun esame strumentale o genetico che sostituisce le visite ai fini della diagnosi.

La famiglia è fondamentale, sia per conoscere il bambino che per aiutarlo.

Non esistono medicine specifiche che possono curare l’autismo.

Posso conoscere tutte le tecniche comportamentali per trattare il bambino, ma se fallisco la relazione il mio intervento non è efficace.

La difficoltà di comunicazione non è solo del bambino, ma dell’ambiente che non ha ancora adottato un sistema di comunicazione adatto al bambino.

La terapia deve essere al servizio del bambino, per migliorare la sua qualità di vita.

La lista è incompleta...Aggiungete voi i vostri punti fermi

    

Non sono autistici

I casi di autismo sembrano decisamente aumentati, non so dirvi il perché. Ci sono tuttavia dei bambini, a cui è stata fatta questa diagnosi, che “mi sembrano tutto” tranne che autistici.

Sono bambini che magari non si girano quando li chiami, o che non ti guardano, o che saltellano sulle punte, che si agitano facilmente, che giocano poco insieme agli altri, che non indicano, o che non hanno ancora sviluppato il linguaggio, che mettono le macchinine in fila, che si buttano a terra se non ottengono quello che vogliono, che sono inibiti, che sono poco flessibili…e che non sono comunque autistici. In un test o in una scheda compilata hanno il punteggio che soddisfa i criteri, ma non lo sono. Il tempo lo conferma.

Lo vedi, lo senti, che non lo sono. 

Perché qualche volta ti hanno anche fugacemente guardato, come per osservare la tua reazione, qualche volta ti hanno portato anche un gioco, solo per mostrarlo, qualche volta hanno cercato in situazioni nuove lo sguardo della mamma, qualche volta hanno fatto “ciao” con la manina e qualche volta hanno imitato la mamma durante una canzoncina. 

Piccole cose..fatte comunque con una qualità tale da capire che non lo sono. 

E il tempo lo conferma.


Ma a volte la diagnosi viene comunque fatta, anche quando non c’è. E potete capire le conseguenze… 

Non ce la faccio

Ti hanno spiegato cosa fare per aiutare il tuo bambino, cosa è meglio per lui, quali attività devi privilegiare. Molte cose le avevi capite già da sola, le avevi lette o le avevi viste fare.

Ma ci sono momenti in cui proprio non ce la fai a dedicarti interamente a lui come vorresti. Perché non c’è solo il tuo bambino, perché c’è una famiglia, perché c’è il tuo lavoro, perché ci sono i vicini e i parenti, ci sono i compiti degli altri figli, e non c’è abbastanza tempo.

Ti senti in colpa se ti dedichi del tempo, senti su di te soprattutto gli sguardi e i giudizi di chi non ti conosce abbastanza. Non ti è sempre facile trovare l’equilibrio necessario: dedichi l’anima e il cuore a chi ha più bisogno e non vuoi tralasciare i bisogni, i desideri, le esigenze di tutti gli altri.

E senti su di te il peso di questa responsabilità, senti di non aver fatto abbastanza o di non riuscire a fare abbastanza. Pensi che quello che non fai adesso non lo puoi fare in seguito. A volte Ti senti sola, non capita e non sostenuta. Hai fatto magari delle rinunce, e nessuno se ne è accorto. O stai rinunciando a qualcosa che ti sta a cuore: il lavoro, il tuo tempo libero, i tuoi desideri.

E allora trova il tempo di riflettere, ogni giorno, per capire cosa stai facendo, cosa è meglio fare e perché lo fai. Cerca di guardare oltre le apparenze delle cose, guarda all’essenziale, a ciò che è veramente importante. 

Concediti di avere dei desideri solo tuoi e non aspettare domani per realizzarli. Fai ogni giorno un passo, anche piccolo, che ti fa sentire felice e realizzata. Il tuo bambino non ti chiede sacrifici e rinunce, lui ti vuole, contenta, serena, tollerante, paziente, e per esserlo devi prenderti cura di Te.
Accetta questo momento così com’è.




La mamma prende una decisione

F. è un bambino con un ritardo dello sviluppo. La mamma lavora in un negozio, mattina e pomeriggio, e ha poco tempo libero. Pensa lei ad accompagnare i bambini a scuola, a riprenderli e a preparare il pranzo. Come tante mamme si trova alla fine della giornata esausta e con qualche senso di colpa.
In terapia F. gioca e si esercita con gli incastri, con attività come infilare e sfilare, abbottonare e sbottonare, con l’obiettivo, a più lungo termine, di renderlo più autonomo nel vestirsi.
A casa F. non vuole “fare niente” con la mamma, si rifiuta, vuole continuare a stare davanti al tablet o alla tv, è una lotta che alla fine non porta a niente. In realtà gli incontri con la mamma, finalizzati a migliorare le autonomie, sono occasionali, estemporanei, non pensati.
Dopo un po’ di tempo la mamma di F. comprende di essere impaziente nei confronti di F., anche perché è spesso stanca e ha poco tempo da dedicare ai suoi hobby.
Allora prende una decisione.
Decide di fare un elenco delle sue priorità e si accorge che è pochissimo il tempo che gli dedica. Per questo motivo prova ad organizzare diversamente le sue giornate, cerca l’aiuto dei nonni e del marito, e riesce a ritagliare degli spazi da dedicare esclusivamente a sé e a F.    
 Ben presto si accorge della differenza.
Quello che aiuta F. a impegnarsi a casa sono essenzialmente due cose che prima mancavano:
la serenità della mamma e un tempo costante dedicato esclusivamente a lui.
È stato possibile in questo modo creare una routine, un’abitudine, un riferimento costante. E le volte in cui F. non vuole proprio impegnarsi a fare le attività, è la mamma che le completa, che le inizia, o che addirittura le svolge per lui.
In questo modo crea l’abitudine, cioè l’attività in qualche modo viene comunque svolta, solo dopo c’è il premio.
L’abitudine contiene delle costanti, che proprio perché si ripetono facilitano la comprensione e l’esecuzione delle attività.
Nel tempo F. comprende cosa si può aspettare dall’attività, il tempo che occorre, la certezza del premio.
F. si impegna sempre di più e i risultati anche a casa si vedono.

Il premio ben presto diventa l’attività stessa perché la sua Mamma non ha altri pensieri se non quello di stare con lui e dedicargli il suo tempo. 

La visita del neonato

Quando vedo il neonato che guarda la sua mamma, la cerca con lo sguardo e le sorride, non ho bisogno di valutare la funzione visiva, la fissazione e l’inseguimento visivo, perché lui è avanti.
Quando vedo il neonato che piange, e si consola immediatamente se preso in braccio dalla mamma, capisco che si è ben adattato all’ambiente.
Quando vedo il neonato che scalcia con le gambette e muove ogni singolo dito del suo piedino, non ho bisogno di vedere i suoi riflessi.
Quando vedo il neonato che mi guarda con un’espressione diversa rispetto a quando guarda la sua mamma, mi rallegro e capisco che già interagisce da tempo.
Quando vedo il neonato che emette dei vocalizzi di risposta alle mie “domande”, capisco che la mamma ci gioca tanto.
Quando vedo il neonato protestare con il pianto perché è lasciato solo, capisco che sta apprendendo il potere della comunicazione.  
Quando vedo il neonato che si porta le mani in bocca capisco che si sta preparando ad afferrare gli oggetti.
Quando vedo il neonato che mi esce la lingua dopo che gli ho fatto vedere la mia, so che sarà in grado di imitare.
Quando vedo il neonato che gira la testa verso le voci e i rumori capisco che ci sente.

Quando vedo lo sguardo che ha la mamma per il suo bambino, capisco che non occorrono consigli.

Non possiamo misurare tutto

G. è un bambino di 7 anni con un disturbo dello spettro autistico, frequenta la prima elementare. Ha due fratelli più grandi di lui, ama giocare all’aria aperta, corre e si sporca in continuazione. In classe spesso disturba attraverso grida continue.
I genitori vengono per questo richiamati e si decide insieme di avviare un intervento ABA. La procedura prevede inizialmente un’analisi dettagliata del comportamento, occorre avere un quadro iniziale di base: quante volte grida e con quale intensità, quando lo fa, cosa succede prima e cosa dopo. Si prendono in esame moltissime variabili che possono scatenare le grida: luci, orari, possibile richiesta di attenzione, la confusione della classe, la stanchezza, il tipo di compito, ecc. Si compilano tabelle, schede e grafici. Il comportamento in oggetto è sviscerato in maniera molto approfondita, e tutte le variabili di antecedenti e conseguenze del comportamento sono state registrate.
A questo punto la sua insegnante di sostegno è pronta a mettere in pratica tutte le varie procedure suggerite per avere il controllo educativo e il controllo delle variabili che scatenano le grida. Non solo, segna in una tabella quante volte il bambino grida in un arco di 5 minuti. In questo modo è possibile registrare i cambiamenti del comportamento in oggetto.
Lavoro preciso, tutto è misurato.
Dopo circa una settimana di intenso lavoro l’insegnante di sostegno si deve assentare per motivi di salute e viene temporaneamente sostituita da un’assistente.
L’assistente è all’oscuro di tutto il lavoro avviato. Lei conosce poco G., ma il suo primo approccio è delicato e graduale. Con fare dolce, calmo e fermo dirige G. al completamento del suo compito. Per un’ora G. esegue i suoi compiti e non si sente gridare, nemmeno una volta…



   

Non fermiamoci alle etichette

Quando incontriamo le famiglie e visitiamo i bambini, noi operatori, spesso finiamo  per fare riferimento alle nostre categorie e alle nostre conoscenze. Cataloghiamo, classifichiamo i comportamenti, diamo delle etichette, diamo delle spiegazioni dei comportamenti che sono sempre le stesse. Facciamo diagnosi, indirizziamo per eventuali approfondimenti e suggeriamo un percorso riabilitativo. Tutto giusto, tutto fila.
Ma basta una notizia, basta un comportamento osservato per arrivare a una conclusione?
Sappiamo che non può essere così.
Sappiamo che per conoscere il bambino e la sua storia occorre del tempo. È vero, la nostra esperienza ci permette di vedere più in là, ma vediamo sempre le stesse cose: come parla, cosa comprende, come si muove, come gioca. 

Per conoscerlo non basta.

E allora fermiamoci, diamogli tempo, interessiamoci, giochiamo e mangiamo insieme a lui, raccontiamogli una storia, facciamoci una passeggiata, accompagniamolo in bagno, laviamoci le mani insieme, abbracciamolo, coccoliamolo, guardiamo il mare e il cielo, raccogliamo un fiore, cantiamo.

Il bambino non deve fare niente, nessuna prestazione, nessuna. Lui deve solo provare stupore.

È possibile?!


Sentiamo cosa desidera, ascoltiamolo,… solo così possiamo conoscerlo e capire che c’è anche un tempo per gli abbracci.     

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